venerdì 6 maggio 2016

I de Capitani di Scalve. Principio e fine di un Casato

I DE CAPITANI DI SCALVE
Principio e fine di un Casato                                     


Se per il genealogista la metodologia generale e le sue problematiche rappresentano le regole di ogni sua ricerca, non altrettanto si è sempre verificato,  scrive Dante Zanetti, per i genealogisti che nei secoli lo hanno preceduto:

“…genealogisti di tutti i tempi hanno cercato di ricostruire, generazione dopo generazione, le vicende di famiglie ricche e potenti. Ma il loro impegno si era esercitato specialmente nella ricerca  di motivi encomiastici e nella illustrazione di vicende patrimoniali, particolari araldici e simili, accogliendo spesso con eccessiva disinvoltura quanto servisse al loro intento apologetico e scartando ciò che vi contrastasse…”[1]
Lo storico oggi rilegge i documenti esistenti con uno sguardo nuovo, tenendo conto anche del mutamento della scansione del sapere, con una nuova griglia  interpretativa. 
Nel tempo in cui si formarono le genealogie come quella in esame a ciò provvedevano, nella maggior parte dei casi, scrittori mercenari. Ai quali si affidavano, salvo rare eccezioni, documenti apocrifi e biografie celebrative, dipanate all’interno di quelle classi emergenti, di cui l’ignoranza e la miseria della popolazione, che le circondava, favorivano l’avallo. 
Per questo il Manaresi suggeriva, a quegli storici che alla genealogia si volevano dedicare, uno studio sistematico dei prefissi d’onore dominus, ser e don[2] sottolineando: “…oltre che nei riguardi storici un tale studio potrebbe riuscire interessante anche nei riguardi araldici, poiché in Lombardia, come altrove, sull’uso dei prefissi d’onore si fonda in una grande quantità di casi la prova principale pel riconoscimento di nobiltà…i prefissi settecenteschi non hanno (già) più il valore di quelli del Cinquecento. Nel Cinquecento, dal più al meno, se si fa eccezione degli abusi lamentati anche dal Collegio dei Giurisperiti, i prefissi d’onore stanno ad indicare nella persona che ne è contraddistinta la condizione nobiliare non disgiunta da una agiatezza che le consente di vivere more nobilium; nel Settecento, invece, essendo ormai troppo remote le origini della nobiltà, i prefissi  d’onore si attribuiscono con una certa facilità anche a persone la nobiltà della cui famiglia è tutt’altro che provata…
Ma fortunatamente nella seconda metà del Settecento un fatto nuovo doveva togliere definitivamente ogni valore ai prefissi d’onore… Voglio alludere all’obbligo fatto da Maria Teresa a tutti i nobili e titolati di provare con documenti autentici dinanzi al Tribunale Araldico, istituito nel 1768, i propri diritti nobiliari…”.  Perdettero così “ ogni valore gli appellativi dati dai notai e dai pubblici ufficiali se le persone alle quali venivano attribuiti non avevano saputo ottenerne il riconoscimento dal competente Tribunale Araldico”.[3]
Prete Giovanni Battista Angelini, dal canto suo, riscontrò nelle carte di Bergamo del XIII secolo che “il titolo di domine si diede in quel secolo a quelle persone che erano dell’ordine consolare di giustizia e de’ giudici e de’ cavalieri chiamati militi, de’ dottori fisici detti domini maestri, degli anziani, de’ sapienti, degli assessori dei podestà, de’ podestà medesimi, benchè la podesteria fosse la prima carica della città e una specie di breve principato, e se si legge il titolo di nobile signore dato a qualche soggetto in quel secolo in cui anche il titolo di domine era usato con limitazione nelli soli soprannominati, si può notare qual distintivo rarissimo in alcune delle famiglie o persone de’…”[4]
E quello che l’Angelini disse per Bergamo, secondo il Manaresi, vale  in genere anche per altre città lombarde, Milano compresa.  “…schematizzando al massimo, potremmo dire che tra l’inizio del Cinquecento e la metà del Settecento la nobiltà milanese fu caratterizzata da un triplice registro di distinzione: in primo luogo vi era un tipo di distinzione nobiliare legata, almeno apparentemente, alla residenza, cioè al fatto di abitare entro le mura del comune cittadino: in realtà l’origine di questo tipo di nobiltà risaliva alle vicende politiche dell’età comunale e all’appartenenza alle diverse fazioni che avevano caratterizzato l’epoca…accanto a questa, in età spagnola coesistette una forma di distinzione nobiliare che poteva dirsi un’eredità del periodo visconteo-sforzesco. Si trattava di una nobiltà legata alla nobiltà terriera e all’egemonia politica signorile e fu legata alla corte dei Visconti e degli Sforza; pertanto caratterizzò le famiglie nobilitatesi grazie al favore del principe durante l’epoca ducale…
Da qui era sorta una nobiltà che, rispetto a quella cittadina di epoca comunale, poteva essere definita nuova  e feudale, perché scaturita dalla concessione di investiture feudali, ma anche cortigiana per il rapporto particolare che la legava ai principi, e dunque perché strettamente legata alle corti instaurate a Milano dalle dinastie signorili…
Infine, nel Seicento, si venne profilando una distinzione legata alla ricchezza, che caratterizzò le famiglie nobilitatesi grazie alle necessità finanziarie, ma non solo, della Monarchia Cattolica, cioè della Spagna, prima, e della Monarchia Asburgica poi…
Quindi, partendo da esigenze di vario tipo, fu approntata l’alienazione di terre, ovvero di feudi, su cui si poterono appoggiare, con ulteriore esborso di danaro, titoli nobiliari tanto più prestigiosi quanto più importanti erano i feudi…”[5]
Ne consegue che le notizie arrivate sino a noi sulla famiglia dei Capitani di Scalve, che sarebbe stata originaria di Locarno, andavano verificate.
Ed è quello che ho fatto, nei limiti in cui può essere ancora possibile farlo, avvalendomi anche delle fonti genealogiche della nobiltà milanese e lombarda, edite ed inedite. Unite a ricerche in più direzioni: per strade già battute e per altre nuove, senza trascurare quelle, negli anni, intraprese presso archivi di famiglie legate ai de Capitani di Scalve da rapporti di parentela; di istituzioni ecclesiastiche; e così pure presso Biblioteche e nella parte antica del Fondo Araldica.[6]
Non distogliendo lo sguardo da una storia non automatica, bensì problematica, per quello che il tema e la documentazione reperita lo consentono.
Ma, ecco, innanzi tutto, in un minimo di cornice cronologica, da quale albero sarebbe germogliato, secondo una Genealogia settecentesca accreditata dalla famiglia de Capitani, il ramo di Scalve a Milano dal periodo sforzesco.

Feudalesimo laico


“Carlo Magno aveva alzato il feudo; ma quando questo istituto aveva minacciato di sopraffare l’impero gli Ottoni avevano reagito innalzando e diffondendo i poteri temporali degli ecclesiastici, nell’intento di deprimere quelli dei laici.
Divenuta presto temibile anche la stessa potenza ecclesiastica, gli imperatori cominciarono ad orientarsi verso i ceti sociali gradatamente sottostanti. Per ricostruire le basi dell’impero, si cominciava a cercare un appoggio più in basso”.[7]
Per quel che riguarda il sistema feudale sappiamo che era caratterizzato da una struttura gerarchica a forma di piramide. Alla sommità della quale stavano i principi, cioè duchi, marchesi e conti; venivano quindi i capitani, valvassores maiores, che possedevano una circoscrizione della contea (titolare di un feudo in capite, vale a dire di un feudo concessogli direttamente dal principe) e seguivano i valvassori, vassalli del vassallo del re, titolari di un feudo solitamente costituito da un castello loro concesso dal capitano; ed, infine, sotto di essi stavano i valvassini.
Ma questo sistema, al pari di ogni cosa umana, non rimase, come sintetizza la Zanetti, immobile. Non solo, esso, in momenti diversi, non può essere sempre facilmente inquadrato nello schema appena sopra delineato.
Si tratta, insomma, di un fenomeno molto complesso che produsse un nuovo assestamento sociale importante per il futuro dell’Europa occidentale, partendo dalla commendazione e dal rapporto beneficiario.  
Ottone I, il grande, succeduto al padre Enrico I, re di Germania, ricevuta la corona imperiale in Roma da papa Giovanni XII donando ai vescovi, presenti all’incoronazione, castelli di cui disponeva in Italia non segnò ancora la fine del feudalesimo laico. Ma i castelli, con le terre annesse, costituirono buona parte della proprietà fondiaria di quei vescovi e diedero vita all’infeudamento delle pievi.
I Capitani di Sondrio sosterranno di avere ricevuto dal primo Ottone l’investitura.[8]
Il Bognetti scrive al riguardo:” Però se in alcuni casi il nome coincide col capopieve, in certi casi il predicato di capitanei, pur dotati di decima nella rispettiva pieve, deriva appunto da quello di un castello, ben distinti dalla località pievana.”   “…tutto indica la persistente funzione militare dei capitanei, anche quando ricevettero le pievi, il loro predicato feudale si riferì per lo più ad un castello compreso nella pieve ma distinto dalla chiesa battesimale…I capitanei erano, relativamente, forza nuova, come ci dice anche Landolfo seniore…la funzione dei capitanei collocati dal vescovo o divenuti (in quella crisi che replicatamente pose fuori legge conti e marchesi dichiaratisi contro il sovrano) vassalli del vescovo fedele al sovrano legittimo…”[9]  

 La famiglia di Locarno ed i  Capitanei da Sondrio

Tra il Codex diplomaticus Capitaneorum locarnensium del de Muralt, ristampato dal Besta[10] con la versione della medesima cronaca,  e la Genealogia dei  Capitani di Scalve l’unico punto in comune è quello della presunta località di partenza: Locarno.
La Genealogia dei Capitani di Scalve parte non da Viviano e da suo figlio Alberto che nell’anno 961 fu in Festo hastiludii Mediolani, nominata pure dal Besta, bensì dopo la caduta dell’Impero romano. 
Quali conclusioni si possono trarre da quanto è scritto nella Genealogia, dinanzi a tradizione popolare e cronaca leggendaria, sapendo che i documenti arrivati a noi relativi alla costituzione del capitaneato, e non  certamente solo  quelli, sono assai spesso lacunosi?
E come ignorare la fluttuazione feudale delle fonti di potere e dei loro effetti giuridici e fiscali e la grande elasticità nell’interpretazione dei diplomi e della loro esecuzione?
Non ci rimane, allora, che una cronaca, punteggiata da leggende, riguardante la famiglia locarnese, di origine franca, che la tradizione estese ai capitanei di Sondrio ed a quelli della Valle di Scalve.
Insomma, quel Viviano di Roberto, disceso dal paladino Orlando, esule per un amore contrastato a Locarno insieme al padre ed ai fratelli Landolfo ed Aurelio, fuggiti dalla Francia per sfuggire alla morte, direi che rientri più nelle leggende cavalleresche che non nella storia. E neppure in leggende italiane perché questo mondo cavalleresco non era mai stato in Italia che un mondo di fantasia  e visto da lontano.  Da noi, difatti, non vi fu un serio sentimento cavalleresco in grado di ispirare qualche cosa come il Cid. 
Per Alberto, figlio di Viviano, invece, che sarebbe partito da Locarno, nel 961 al seguito di Ottone I, per partecipare al torneo di Milano nel quale  si sarebbe distinto e l’imperatore, per questo, gli avrebbe donato pedaggi e terre in Valtellina, abbiamo quanto hanno scritto gli studiosi di storia valtellinese.[11]  
Ma non è  per niente facile per un ricercatore muoversi in una realtà di guerre, di violenza, in una età di ferro; in un paesaggio politico tra IX e X secolo solcato da intrecci di interessi passati e recenti sparsi in carte raramente originali e spesso molto controverse, con una marcata carenza di documentazione.
Se  si aggiunge che “verso la fine del secolo X, inoltre, non è da escludere neppure l’influenza del vescovo di Bergamo”[12]… le ombre, allora, crescono.
Ancora più quando tra gli storici che si sono occupati della Valtellina vi è pure chi nega, come il Romegialli, che vi sia un rapporto fra le famiglie locarnesi e i capitanei di Sondrio.[13]  
La famiglia di Locarno, al contrario, continuerà a fare ruotare tutto attorno ad Ottone I di Sassonia.
Egli era sceso in Italia nel 951 e si era fatto proclamare re d’Italia in Pavia. Tornato in Germania a causa delle lotte civili e del pericolo ungaro aveva lasciato in Italia quale vassallo Berengario. Sconfitti gli Ungari, Ottone ridiscese in Italia nel 961 e l’anno seguente ricevette la corona imperiale in Roma.
La politica dell’imperatore, come già ho accennato, fu quella di sottrarsi allo strapotere dei grandi feudatari laici sostituendoli con i vescovi senza ereditarietà personale e di conseguenza sottoposti direttamente  per la nomina alla volontà imperiale.
Dai Carolingi ai re italici ed agli Ottoni nelle mani dei vescovi si accumularono così enormi ricchezze. Essi per poter mantenere e difendere l’immenso patrimonio affidarono nel contado i distretti rurali delle pievi, infeudandone le decime ai capitanei plebum, scelti tra la nobiltà rurale divenuta loro vassalla. E si delineò una nuova feudalità, non più di carattere militare, ma soprattutto amministrativa, legata al vescovo.
“La feudalizzazione dell’attività amministrativa, prevalendo sugli aspetti militari nella seconda metà del X secolo, finì col permeare tutta la vita civile. Si ebbero varie nuove figure giuridiche dei feudi, dall’amministrativo al patrimoniale, all’ecclesiastico, per cui sotto i livelli feudali di primo rango pullulò ovunque una folla di militi minori, di vicedomini, di visconti, di capitani, di valvassori e valvassini, di gastaldi, di avvocati vescovili, con un processo sociale di partecipazione, un vero e proprio assalto degli interessati, inteso a frazionare il potere a loro vantaggio.”[14]
E le famiglie assunsero a loro patronimico il nome dell’alto ufficio loro concesso. E tale cognome permarrà nel tempo. 
“I capitanei di Sondrio lo furono anche di Berbenno: essi così dominavano la via che dalle valli Madre, Cervia e Livrio conduceva attraverso la valle Malenco e il valico del Muretto all’Engadina… I trasferimenti dei capitaneati corrispondono anche all’accresciuta o diminuita importanza delle singole pievi, per ragioni mercantili, demografiche, di fortificazione. Così originariamente i capitanei dovettero avere la loro sede in Berbenno, centro della pieve; ben presto prevalse nella medesima pieve Sondrio, ed ecco i capitanei trasferirsi a Sondrio…Più in là i capitanei s’impadroniscono della rocca di Stazzona e di altre che dominavano le vie verso la Camonica o l’Engadina…
I capitanei di Sondrio, gli avvocati di Bormio, i conti di Chiavenna sono dunque vassalli feudali minori che traggono direttamente la loro autorità dall’imperatore e ne rappresentano e ne esercitano i poteri, sia giudiziari, sia amministrativi in genere, nel quadro della crisi che colpisce la grande feudalità e della frantumazione del feudalesimo….”[15]

La Valle di  Scalve ed i  Capitanei

La tradizione confermerebbe che dai Capitanei di Sondrio siano discesi i Capitanei di Scalve.
Questo almeno si ricava dalla lettura della Tavola II “ Famiglia de’ Capitanei da Sondrio”.
Ad ogni modo la valle di Scalve comprendeva “ anche l’alta Val Seriana, al di là del passo della Manina e la Valle di Belviso valtellinese...”[16] 
E’ un fatto che già nel 1026 il nome di Scalve compare nel documento di cessione della Valle al vescovo di Bergamo da parte dell’abate Regimerio del monastero di S. Martino di Tours; e poi ancora nel 1047 l’imperatore Enrico III usò il nome di Scalve nel suo privilegio…”. I monaci di Tours, incontrate qui difficoltà amministrative e geografiche furono spinti a scambiare queste proprietà con il vescovo di Bergamo, un Tornielli di origini novaresi, il quale dette in cambio terre poste in Piemonte e nei territori di Milano e di Pavia per l’estensione di circa 800 jugeri ossia, secondo il Ronchetti, circa 7200 pertiche bergamasche, con case, servi, aldani ecc.
E nel 1222 lo stesso vescovo ne investì due rami della nobile famiglia dei Capitani che sborsò per tale investitura cento lire imperiali, impegnandosi, inoltre, ad un canone annuo di lire 20 imperiali pagabili la festa di S. Martino. E’ questo uno degli atti più importanti della Valle, che diviene automaticamente, in virtù di questo scambio, proprietà del vescovo di Bergamo. Le dificoltà amministrative e geografiche incontrate dai monaci di Tours, possono essere state le stesse che decisero nel 1222 il vescovo Giovanni a cedere il feudo della Valle alla nobile famiglia de’ Capitani da Scalve…[17]
L’investitura dei Capitani non era stata di troppo gradimento agli Scalvini e d’altro lato pare che anche i nuovi Padroni non seppero accattivarsi la simpatia, anzi, come annota il Grassi, seguendo il malcostume dei Signorelli di quei tempi, usi a misurare la forza e non il diritto, eccitarono la pubblica indignazione e poi l’aperta resistenza del Comune di Scalve; talchè cacciati i loro espilatori,  essi stessi furono costretti ad allontanarsi dalla Valle.[18]     
Alla fine, pro bono pacis et ad majorem Dei gloriam, addì 3 marzo 1231 fu firmata una convenzione, con pubblico atto a rogito di Giovanni Ferragalli notaio del Sacro Palazzo, nel palazzo del comune di Almenno con la quale i Capitani cedono alla Comunità di Scalve, rappresentata dai suoi stessi procuratori, tutti i diritti e le giurisdizioni feudali ad essi spettanti in forza della perpetua locazione sottoscritta dal vescovo Giovanni, ad eccezione della decima del grano, del lino e della canape, e del tributo sul bestiame, cioè un agnellino ogni dieci, d’un capretto ogni cinque e di un denaro per ogni vitello… La Valle sborsò ai Capitani per il suo riscatto 2200 lire imperiali e in più si caricò del canone di lire 20 da pagarsi al vescovo nella festa di S. Martino…La Valle aveva così raggiunto la sua completa autonomia per la quale si dibatteva da vari secoli…” 
La famiglia dei Capitani era la più illustre e ricca famiglia di Scalve, ammessa alla cittadinanza di Bergamo, di Brescia e di Milano.[19]
Nessuno storico segnala la presenza dei Capitani nella Valle di Scalve prima dell’XI secolo. Uno di questa  famiglia, Ripaldo, fu console di Bergamo agli inizi del 1100; mentre nel 1180 Raimondo è uno dei consoli maggiori della Repubblica di Bergamo.
Anteriormente al Mille la Valle esisteva come Università o Comunità di Scalve, non sappiamo esattamente con quali oneri e verso chi.  Un “Raimondo era podestà del Comune ed Università di Scalve, quando l’ 8 settembre 1202, venne fatta una divisione semplicemente patrimoniale, non politica né giurisdizionale fra la Comunità di Scalve (o comune Grande) e quella parte della medesima che si chiamava Bondione…; lo stesso Raimondo era podestà di Bergamo negli anni 1213, 1219 e 1220…”
Mentre Filippo dei Capitani di Scalve, nel 1253, in rappresentanza del Comune di Scalve, firmò l’Atto di sudditanza all’Impero, la riconferma cioè dei vecchi privilegi da parte del rappresentante dell’imperatore.[20]
Alcuni discendenti dei Capitani vivono ancora nella Valle; ma il ramo più ricco di questa famiglia abbandonò presto la Valle di Scalve.
Quanto scritto dal Bonaldi coincide, salvo qualche nome e data, con quello che compare nella genealogia dei Capitanei di Scalve, cittadini di Bergamo.

Il  ramo milanese dei Capitanei di Scalve


“Con istromento 6 maggio 1410, indizione nona, rogato in Mezzate, nella casa di abitazione dei fratelli Tonolo, Giorgio e Cristoforo de Capitaneis de Scalve, cittadini di Bergamo, da Bettino de’ Seminati, da Albano, notaro bergomense, - assistendo, quali testimoni, Giacomo del fu Benvenuto de Capitaneis de Scalve, Giacomo del fu Tonolo de’ Gargani, Martino, detto Maza, del fu Forchino de Pezzolis de Boniatica e Tonolo del fu Alberto de suprascriptis Pezzolis de Boniatica, bergomensi,- Pietro Lorenzo de Capitaneis fece acquisto di una torre  e di un appezzamento di terra nella contrada di Vilminore di Scalve, dai suddetti fratelli Tonolo, Giorgio e Cristoforo, del fu signor Giovanni de Capitaneis de Scalve, cittadini di Bergamo, ed abitanti alla Costa di Mezzate, nel distretto di Bergamo.
Esso Pietro Lorenzo, con testamento rogato in Bergamo, nel borgo di Sant’Andrea, nella vicinanza di San Michele al Pozzo Bianco, nella casa d’abitazione e nella camera da letto di esso testatore, addì 28 luglio 1448, indizione undecima, da Betino di Pasino de’ Ficieni, da Albano, notaro pubblico bergomense, istituì eredi universali, in parti uguali, i fratelli Cristoforo ed Assalonne, dottore nelle arti e nella medicina, suoi figli legittimi e naturali…
Detto testamento non potè essere compiuto per la sopravvenuta morte del testatore.
Esso Pietro Lorenzo è citato come defunto padre dei medesimi Assalonne e Cristoforo nel seguente istromento, rogato in Bergamo il 20 dicembre 1451, indizione quattordicesima, da Benzanino di Giovanni de’ Maioli, da Lorentino, notaro pubblico bergomense…
Il medesimo Pietro Lorenzo ebbe in moglie Elena dei conti di Calepio”[21]
Questi de Capitani di Scalve divennero cittadini milanesi a metà Quattrocento.
Lo storico bergamasco Donato Calvi, nelle sue Effemeridi Sacro-Profane, dice che Assalonne, chiamato il 4 gennaio 1456 da Francesco Sforza, duca di Milano, venne ad abitare in questa città. 
La duchessa Bianca Maria, figlia naturale di Filippo Maria Visconti e moglie di Francesco Sforza, il 17 maggio 1457  creò Assalonne, che era cittadino di Bergamo, suo familiare “ e lo aggregò al consorzio dei fisici familiari ducali e, con diploma dato in Milano il 14 gennaio 1460, conferì a lui, suoi figli e discendenti, la cittadinanza di Milano”.[22] 
Il vescovo di Padova, quale cancelliere apostolico dello Studio patavino, con patente di venerdì ultimo di giugno del 1447 lo  aveva creato dottore nelle arti liberali, e, con patente del 1448, dottore in medicina. Professione esercitata in seguito dal figlio Pietro, che nel 1515 venne  “eletto a giurare in verba Maximiliani Sfortiae;”  e, nello stesso anno, istituito erede dal padre.  Anche il figlio di Pietro, Giovanni-Cristoforo, fu dottore  nelle arti liberali e nella medicina. Egli fu pure “donatario della cugina magnifica signora Maria, figlia del fu magnifico signor cavaliere Francesco Suardo; e venne eletto a orare avanti il Re Cristianissimo, in occasione della di lui venuta in Milano”.
Mentre dalla figlia di Assalonne, Clara Leonarda, sposata a Cesare Porro, verrà il cognome Porro che i de Capitani aggiungeranno al loro.[23]
Per il de Capitani di Scalve, fisico in casa ducale, non valsero gli Statuti del 1517 che allo statuto XI stabilivano: Nemo in Collegio medicorum admittatur aut recipiatur nisi vetus civis, non per litteras, Mediolano aut ducatu oriundus de nobili et antiqua saltem centum et viginti annorum prosapia. [24] 
Con il passare degli anni questi de Capitani entrano  così, di diritto, a far parte del patriziato milanese.
E dal “sangue dei re longobardi” al quale sarebbe appartenuta la moglie di Cristoforo, si arriva a metà Cinquecento alla moglie di Pirro,[25] figlio di Cristoforo, la cui famiglia è imparentata con Gian Giacomo Trivulzio, maresciallo di Francia e marchese di Vigevano. Pirro sposa, infatti, Paola Gallarati, figlia di Nicolò, sorella di Pietro Francesco e di Marc’Antonio[26] grandi proprietari terrieri a Concorezzo,  dove avevano anche una casa da nobile  con giardino, per la villeggiatura. La loro residenza è a Porta Nuova, parrocchia di S. Babila intus Mediolani.
I Gallarati furono alla corte dei Visconti e poi degli Sforza. Alla metà del Quattrocento un Giovanni Gallarati è a Concorezzo. A lui venne venduto il dazio dell’imbottato, del pane e della carne di Concorezzo, Passirana ed Agrate il 6 novembre 1466.
Tra fine Quattrocento e prima parte del Cinquecento il territorio di Concorezzo è diviso prevalentemente tra i Rabbia ed i Gallarati.
L’altro figlio maschio di Cristoforo fu Agostino o Agosto del quale le fonti ufficiali della famiglia de Capitani di Scalve ci dicono: “Consta da documenti del 1548, 1549, 1550, 1566, 1567 ed altri, che egli era dottore collegiato di Milano. Fu prelato nella Curia Romana, referendario dell’una e dell’altra segnatura, governatore di Città di Castello e di Benevento, e, durante i torbidi di Francia, venne per alcuni particolari negozi, dal Pontefice Pio IV (Giovanni Angelo de’ Medici), inviato alla Maestà di Filippo II.” 
E dal Sitoni apprendiamo che nel suo ultimo anno di vita (1568-1569) Agosto de’ Capitanei di Scalve fu  arciprete (il LIV) della Chiesa di Monza: ” Augustinus J.C. Archypresbyter Modoetiae; obijt 1569, sepultus in ecclesia S. Angeli P. N. Mediolani.”[27] Nelle Genealogie della famiglia de Capitani di questo, però, non si fa cenno; anche se il Frisi nelle sue Memorie storiche di Monza ha scritto di avere appreso ciò dalle “carte esistenti nella Casa de Capitani a Milano”. Ma nel 1794, quando le Memorie del Frisi vengono pubblicate, il Teatro Genealogico del Sitoni è noto da oltre mezzo secolo. Si tratta, dunque, di un capitolo della storia di questo Agostino de Capitani al quale dovrebbe essere dedicata una più approfondita indagine. Anche perché si tratta di un periodo della Controriforma in cui la storia della Chiesa ambrosiana retta dal primo Borromeo riveste una particolare importanza, religiosa  politica e sociale, non solo per la diocesi di Milano.
I de Capitani di Scalve hanno iniziato, ormai, un’attenta politica di alleanze matrimoniali ed un’accorta politica patrimoniale ed ereditaria con importanti casate bergamasche e milanesi. E, in parallelo, procederanno all’acquisizione di beni immobili a Concorezzo ed in altre località. La creazione di un patrimonio fondiario ed economico sarà il risultato delle strategie da essi attuate sul lungo periodo.
Non si tratta di una delle famiglie più importanti di Milano, ma certamente di una famiglia tra le poche il cui status aristocratico non proveniva dalla mercatura o da altre attività commerciali, e men che meno   da lavoro mercenario, come si legge, invece, per qualche capostipite in “Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi”.
Dalla metà del secolo XVI i nomi dei principali esponenti della famiglia compaiono nel Consiglio dei LX Decurioni, nel Tribunale dei Dodici di Provvisione e nella Giudicatura delle strade.
Cesare, figlio di Pirro, sposerà  Elena Rabbia,  figlia del conte Fulvio, milanese, e di Angela Scarioni, un altro, come abbiamo visto, grande proprietario terriero di Concorezzo[28]. 
Sarà da questa Elena  che, rimasta vedova di Cesare de Capitani e rimaritatasi con Marco Maria Arese, figlio di Benedetto e di Virginia de Medici di Ossona, verrà la famiglia dei conti Arese.[29]
Cesare abitava a Milano nella parrocchia di San Pietro all’Orto. “Nel 1600 dal governatore di Milano venne eletto uno dei Signori Dodici di Provvisione. Testò con istromento 29 aprile 1609, rogato dal notaio Giovan Maria Besozzo fu Bartolomeo, lasciando erede il figlio Daniele ed il nascituro, che fu poi Francesco, e fra gli altri legati dispose dotes singulo anno puellis nubilibus Burgi Concoretij.”


I  de Capitani di Scalve a Concorezzo

A Concorezzo i de Capitani di Scalve approdarono per l’eredità Gallarati.
Marc’Antonio Gallarati era morto  alla fine del 1580,  preceduto  nel 1571 dal fratello Pietro Francesco, entrambi senza discendenza, e la loro erede universale era stata la sorella Paola, sposata a Pirro de Capitani. Ne avevano così beneficiato i figli di Paola: Cesare, Carlo, Agostino e Camilla.
Camilla sposerà Annibale Silva di Gio. Battista,[30] accompagnata da una ricca dote. 
Troveremo, invece, l’ultima figlia di Pirro, Anna tra le  monache del monastero di S.Vittore in Meda.
Erede universale di Camilla sarà il nipote Daniele, figlio di Cesare.
Daniele[31] nacque a Milano il 10 marzo 1597 da Cesare de Capitani e da Elena Rabbia.
“Battezzato il 26 dello stesso mese nella parrocchia di San Pietro all’Orto”  ebbe come padrino il dottor Carpano, “in nome di S.E. il duca di Montemarciano Sfondrato” e come madrina donna Caterina Trivulzio Gonzaga. 
Egli sposerà, il 10 luglio 1617 (notaio Bonifacio Farra fu Gregorio), Maria Anna, di Ercole e di Antonia Marliani, conti di Valle d’Intelvi, signori di Mariano e sua pieve. 
Daniele, che “aggiungeva al proprio il cognome Porro, fu capitano di fanteria; padre di dodici figli[32] e per questo esentato dalle tasse. 
Nel 1628 venne delegato a sedare i tumulti del popolo di Porta Comasina, che erasi sollevato in occasione della distribuzione del pane”; nel 1633 fu titolare dell’Officio di Corriere maggiore dello Stato di Milano, alle dipendenze del governatore di Milano, e vantò un credito verso la regia Camera o Erario,[33]  e nel 1644 fu dei XII di Provvisione.
E’ con lui che i de Capitani accrescono considerevolmente il loro patrimonio.
E le loro aspirazioni di potere si rivolgeranno al feudo di Concorezzo, località in cui essi hanno numerose proprietà, sia per l’eredità da Paola de Capitani Gallarati,  da Camilla de Capitani Silva e da Giulio Vimercati, che per i nuovi acquisti immobiliari.
Nella formazione e nel perfezionamento del patrimonio i de Capitani di Scalve “non escono dagli schemi dei comportamenti della nobiltà italiana, impegnata ad espandere e conservare i propri sistemi patrimoniali”, che vanno dai beni da incamerare con le alleanze matrimoniali all’acquisto di  nuove “ possessioni”. Là dove, con la consistente presenza di loro beni immobili distribuiti in vasti “tenimenti”, si sono assicurati un insediamento stabile.[34] Come a  Concorezzo ed a Meda.[35] 
“A Concorezzo, però, vivono altre famiglie con non minori proprietà e ricchezze, e non tutte sono allineate con i de Capitani, anche se a volte imparentate con essi. Dalla prima metà del Seicento fin quasi alla fine si susseguono, infatti, le grida contro i furti campestri ed altri danni che maliziosamente si arrecano ai beni che i de Capitani hanno in loco.
Non sarà, comunque, ciò ad arrestare la loro scalata a questo borgo ed al suo territorio”[36] E’ del 24 febbraio 1633, infatti, un atto, rogato da Giuseppe Fossati fu Gio.Battista, notaio milanese, dal quale  veniamo a conoscenza dell’offerta del conte Cesare Taverna al Magistrato dei Redditi straordinari per l’acquisto del feudo di Concorezzo a nome di Daniele de Capitani.[37]
“Nel 1649 venne deliberato in favore di esso Corrier Maggiore il feudo di Cameri, nel Novarese, quando quella Comunità chiese ed ottenne il Regio Demanio…”.
Egli, però, muore nella sua abitazione in S. Pietro all’Orto il 18 settembre 1661,  e gli viene “ data sepoltura il giorno seguente nella Chiesa dei Padri di Sant’Angelo”.
Ma oramai la via al feudo per i de Capitani è aperta. E saranno i figli di Daniele a percorrerla fino in fondo, unendovi il titolo di conte.

Al titolo di conte segue il feudo di Concorezzo


Daniele de Capitani, il più dovizioso della Casata, aveva un conto aperto con la Corte di Madrid dal quale sarebbero stati detratti i denari necessari ai suoi successori, Pirro e Giovanni Battista, per ottenere il feudo di Concorezzo.
Anche Pirro de Capitani ce lo conferma: “…poco dopo ricevuta la gratia del Questorato, fui di più gratiato d’un titolo di Conte con la clausola, et successoribus, qual titolo penso d’appoggiar in breve sopra del Borgo di Concorezzo con far acquisto del detto luogo in feudo a disconto di parte del credito che la Casa ha verso la Regia Camera per esecutione di Real Cedola ottenuta quando fui a Spagna e presentata al Signor Conte di Melgar allora Governatore…”[38].
Nel frattempo aveva  indirizzato una supplica al Magistrato straordinario per avere il possesso di quel feudo, precisando che la famiglia de Capitani a Concorezzo “…  da cent’anni a questa parte possiede il maggior corpo di beni, con li datij feudali di pane, vino, carne et imbotato,[39] et dove per informatione fatta dal detto Magistrato, non è concorso alcuno per volerlo infeudare, non ostante le cedole esposte ultimamente et altre volte ancora..”. Ed invita il medesimo magistrato ad includere nel bilancio “ ciò che definitivamente e per minore risulterà essere il credito della Casa del supplicante a effetto di riceverne il rimborso annualmente, limitatogli dalli suddetti R. Ordini et in tutto come in essi si contiene, che li riceverà dalla mano et grandezza di Vostra Eccellenza.”[40] 
Il 9 giugno 1690 comparve finalmente la carta “ Feudo da vendere”.[41]
Il 20 dello stesso mese Pirro si presentò per acquistare il feudo di Concorezzo. E quel giorno “ nel maggior concorso di popolo, nel luogo solito della Ferrata posto sopra la piazza de’ Mercanti a Milano, fu venduto il feudo di Concorezzo per 72 imperiali per focolare alla migliore oblazione…ma fu venduto al Questore conte Pirro de’ Capitani, il quale ha accettato la bacchetta deliberatoria dalle honoratissime mani dello spettabile Signor Presidente Don Ortensio Cantone…”.[42]
Pirro Agostino  era nato “ e battezzato nella Parrocchia di San Pietro all’Orto il 20 aprile 1623, essendogli padrino il signor Gerolamo Sagarula, questore.
Con comparizione 22 luglio 1652 chiese di essere ammesso al Collegio dei Giurisperiti,[43] conti e cavalieri di Milano e, con atto 27 luglio 1652, vi venne ammesso.
Coprì tre volte la carica di Vicario di Provvisione:[44] negli anni 1658-1659, 1669-1670 e 1679-1680.[45]  
Per due volte fu oratore del Senato di Milano presso Sua Maestà Cattolica.
Ed infine fu  Questore del Magistrato sopra i Redditi Ordinari.
Venne, insieme al fratello Giovanni Battista e ai discendenti maschi di questi, con istromento del 4 settembre 1690, ricevuto da Benedetto Agnello,[46] coadiutore del regio ducale notaro camerale, investito, con mero e misto imperio e potestà di gladio, di Concorezzo, feudo di 136 fuochi, per il prezzo di lire 72 imperiali per ciascun fuoco, per un valore complessivo di lire imperiali 9.792.
Carlo II, re di Spagna e duca di Milano, con lettere patenti date in Madrid addì 10 marzo 1691, decorò del titolo di conte sopra la terra e feudo di Concorezzo esso Questore don Pirro de’ Capitanei e i di lui discendenti maschi nati, e nascituri, da legittimo matrimonio, in infinito, erigendo in Contea la detta terra e luogo di Concorezzo.”[47]
Il 30 ottobre 1689, una domenica, il conte Pirro, soggiornando ancora, “a causa delle vacanze”, nella casa che i de Capitani avevano in Concorezzo, detta il suo testamento alla presenza del notaio Francesco Isola fu Giuseppe e di otto testimoni del luogo. 
“Morì esso conte Pirro de’ Capitanei all’età di 74 anni, in Milano nella parrocchia di San Pietro all’Orto, addì 14 agosto 1690, e fu sepolto nella Chiesa dei reverendi Padri di Sant’Angelo”.
Il 5 settembre 1690[48] il conte Carlo Francesco Gorrani, segretario di Sua Maestà e del suo Consiglio segreto dello Stato di Milano, certificava come il conte Pirro de Capitani, questore togato del Magistrato ordinario, a nome proprio, e come procuratore del conte Gian Battista, suo fratello, avesse prestato “il solito e dovuto giuramento di fedeltà a Sua Maestà per il feudo di Concorezzo acquistato dalla Regia Camera per loro…”  nelle mani del Reggente Gran Cancelliere dello Stato di Milano.
“Il fratello di Pirro, Giovanni Battista-Alessandro nacque a Milano nella parrocchia di S. Pietro all’Orto il 29 maggio 1630.
Fu capitano di uno squadrone di corazzieri nelle Fiandre e ricoprì pubblici uffici in patria.
Avendo dimorato alcun tempo in Inghilterra, vi si cattivò l’affetto di quel re Carlo III, per modo che, quando se ne partì, quel Principe lo accompagnò al Re di Spagna con una lettera che grandemente e vivamente lo raccomandava.
Prese in moglie, il 29 ottobre 1681 nella basilica di S. Nazaro, Antonia, figlia di Lorenzo Eleyzaldi, conte di Bereguardo, e della contessa Ippolita Cicogna dei conti di Tornerego e Peltrengo, gentildonna milanese. E da essa ebbe otto figli.[49]
Ebbe la carica di Giudice delle Vettovaglie nel 1695.
Fu il secondo conte di Concorezzo, dove morì il 1° dicembre1703.”
Un istromento rogato il 26 settembre 1701, due anni prima della sua morte, da Giacomo Antonio Serponti fu Giorgio, notaio, riconosce Giovanni Battista vassallo di Filippo V di Spagna e feudatario di Concorezzo.
Mentre Cesare-Giovanni-Battista, nato in Meda il 17 ottobre 1621[50],“venne il 17 aprile 1638 ricevuto, per giustizia, Cavaliere nell’Ordine di Malta. Fu pure capitano di fanti, e combattè valorosamente per Sua Maestà Cattolica in vari fatti d’armi nel regno di Napoli, in Catalogna, in Aragona e nello Stato di Milano.
Testò il 4 aprile 1681 con facoltà concessagli dall’Eminentissimo Gran Mastro.
Morì frà Cesare de Capitanei in Milano il 7 aprile dello stesso anno e fu sepolto nella chiesa dei Padri di S. Angelo.”
“Pirro-Daniele-Francesco-Giovanni-Battista, nato in Milano nella parrocchia di S. Pietro all’Orto il 2 settembre 1682, fu  il terzo conte di Concorezzo, ( compossessoribus Medae..) proprietario a Meda… ed a Vidigulfo, a Vignate ed a Truccazzano.
Portava aggiunto al proprio cognome quello dei Porro.
Nel 1708 fu nominato ciambellano, gentiluomo di camera di Carlo III; e dei XII di Provvisione nel 1708 e 1719; dei LX Decurioni di Milano nel 1711 e nel 1733.
Con lettere patenti 26 agosto 1712 dall’Università dei Nobili di Locarno, e dai signori Pretori e Sindaci della medesima, vennero ad esso conte Pirro ed ai di lui fratelli quali discendenti à Capitaneis Sondrii et de Scalve, che molti secoli prima si erano distaccati dal comune stipite di Locarno, riconosciuti tutti i privilegi e prerogative competenti ai Nobili di quella Università.
Nel 1726 fu Priore del Monte di Pietà.
Nel settembre 1733, nell’incoronazione a Praga di Carlo VI, e III come Re di Boemia, venne fatto cavaliere attuale della Chiave d’Oro. E Grande di Spagna con diploma, in data 29.5.1737, dell’imperatore Carlo VI.
Si era sposato in Milano nella parrocchia di S. Simpliciano, omissis omnibus proclamationibus etiam in vesperis addì 27 settembre 1705, ad Anna Maria Brigida Crivelli di Enea dei marchesi di Agliate, nata nel 1685, e della marchesa Eleonora Gabriella Trivulzio dei marchesi di Sesto Ulteriano e Cologno.
Esso eccellentissimo conte Pirro de’ Capitanei morì di 72 anni in Milano, addì 26 novembre 1753; la moglie era morta a 61 anni, in Milano, addì 7 febbraio 1749.”[51]
Questo Pirro fu il più blasonato della famiglia de Capitani di Scalve.
Dei suoi tredici figli, Giuseppe Antonio, nato nel 1712, fu canonico di S. Maria alla Scala in Milano; cinque furono monacate; tre morirono in Concorezzo ( due infanti ed un adolescente); altri tre seguirono la medesima sorte. 
Il primogenito, Giovanni Battista-Giuseppe-Antonio–Melchiorre, nato in Milano il 18 giugno 1707, sarà il suo successore.
Un breve del cardinale Benedetto Erba Odescalchi, dei marchesi di Mondonico, in data 9 ottobre 1721, a  Pirro ci dice che nella villa de Capitani in Concorezzo[52], la loro residenza di villeggiatura, esisteva un oratorio nel quale si poteva celebrare messa. 

Declino ed estinzione del ramo milanese dei Capitani di Scalve
  
I de Capitani ottennero in feudo Concorezzo, ma non vi esercitarono tutto quel potere che avrebbero potuto o voluto, perché gli  altri compadroni del borgo, radicati in esso da prima che i da Scalve vi arrivassero, direttamente o indirettamente non glielo consentirono.
Il potere, quindi, derivò loro più che dal feudo dall’intreccio di parentele che riuscirono a realizzare. Un potere, però, che non aprì loro l’anima della Comunità, che, si diceva nel borgo, conservava la memoria dei tempi, se non della vicinia, del periodo comunale.[53] 
Giovanni Battista fu il quarto conte di Concorezzo.
Ereditò il feudo ma non la fortuna e la salute, non almeno come  avevano arriso a suo padre e del  quale perderà ben presto anche il cursus honorum.
Fu dei LX Decurioni nel 1733; dei XII di Provvisione negli anni 1736, 1747 e 1750; Giudice delle Strade nel 1744 e nel 1747 Membro della Congregazione del Patrimonio[54].
“Venne creato Ciambellano dell’Imperatore e, dell’Imperatrice e Regina, come risulta da lettera datata da Vienna 29 giugno 1754.
Ebbe in moglie Maria Anna, figlia di Cesare Alberto Cuttica, marchese di Cassine, conte di Quargnento, patrizio alessandrino, e di Maria Veronica Perboni dei marchesi d’Oviglio, nata nel 1723.”
Ebbe tre figli: due maschi ed una femmina che morirà a dieci anni.
Il quarto conte di Concorezzo morì il 28 maggio 1769, all’età di 62 anni, e fu sepolto “ nella chiesa de’ Osservanti di S. Angelo a Milano.”
La vedova, allora, in qualità di procuratrice ed amministratrice dei propri figli minori, rivolse una supplica all’imperatrice Maria Teresa, duchessa di Milano, affinchè accettasse la loro volontaria rinuncia agli onori, prerogative e trattamenti di Grande di Spagna. “E l’Imperatrice, con real Carta 14 marzo 1771, assecondando la supplica, accettò tale volontaria rinuncia.”
Morirà il 4 febbraio 1783, di circa 60 anni, in Milano nella parrocchia di S. Pietro all’Orto.
Marianna Cuttica, che si era risposata segretamente con Gio. Giacomo Trivulzio dei marchesi di Sesto Ulteriano,  fu in grado di preparare una ricca primogenitura per il figlio Pirro.”
“Pirro-Daniele-Porro-Maria-Gaspare-Benigno, nato in Milano  nella parrocchia di S. Pietro all’Orto il 20 novembre 1742, fu il quinto conte di Concorezzo.
Esso Pirro si sposò in Milano nell’insigne basilica dei SS. Apostoli e di S. Nazaro il 12 giugno 1771 a Costanza-Marianna-Carlotta-Gaetana figlia del marchese don Lorenzo Fornara, nobile patrizio milanese, e della marchesa donna Francesca nata nobile Telò.[55]
Da questa unione nacquero quattro figli maschi, due dei quali morirono nei primi tre anni di vita. 
La R.I. Corte, con Aulico Decreto 10 novembre 1788, accordò ad esso conte don Pirro de Capitani, ed a’ suoi successori, per ordine di primogenitura, la ripristinazione negli stessi onori, prerogative e trattamento di Grande di Spagna, de’ quali la di lui famiglia era già in possesso fin dal 1737, per concessione dell’Imperatore Carlo VI. Coll’obbligo, però,  per i  di lui successori primogeniti, di caso in caso, di pagare al R. Erario la somma, per tali casi stabilita, in L. 3000, a titolo di trapasso. Restò, così, con tal nuova superiore disposizione, annullata la suddetta volontaria rinuncia, che, nel 1771, con Real Carta del 14 marzo, era stata accettata da Sua Maestà, la quale aveva clementemente assecondate le suppliche ad essa porte da donna Maria-Anna Cuttica, madre di esso conte Pirro, in qualità di amministratrice e procuratrice dei propri figli minori avuti dal conte Gian Battista de Capitanei.
Il R.I. Consiglio di Governo della Lombardia Austriaca, con decreto 22 aprile 1789, premesso che esso conte Pirro de Capitanei aveva documentato l’antico possesso della propria arma gentilizia, e richiesto che venisse in tal figura registrata nel codice araldico facendovi que’ aggiunti ed ornati che gli competevano nella qualità a cui era stato repristinato di Grande di Spagna, trovando giustificata l’istanza, ordinò [56] al Re d’arme di dare le convenienti disposizioni per il registro dell’arma medesima, secondo le regole del Blasone, rilasciandone alla parte il coerente certificato per sua direzione.”
Pirro morì il 30 marzo 1807 a Milano in via S. Pietro all’Orto, nella parrocchia prepositurale di S. Maria de’ Servi “nella quale era stata compenetrata la parrocchia allora soppressa di S. Pietro all’Orto; ed il di lui cadavere venne trasportato a Concorezzo, dove venne tumulato nella sepoltura di famiglia.”
“Giovanni-Battista-Francesco-Gaetano nacque in Milano, nella parrocchia di S. Pietro all’Orto, il 16 aprile 1772 e fu il sesto conte di Concorezzo.
Nel 1784 venne posto in educazione, insieme al fratello Carlo Pietro, nel nobil collegio Tolomei di Siena.”[57]
Un periodo di turbolenze si stava addensando sopra l’esistenza della nobiltà che viveva già, in buona parte,  di eredità e si pavoneggiava della fama tradizionale, spendendo i guadagni ed i risparmi degli avi.
Maria Teresa, con legge 26 marzo 1778,  aveva iniziato con l’avocare allo Stato tutte le regalie. Suo figlio, Giuseppe II, con decreto 18 ottobre 1785, avocò ai feudatari ogni giurisdizione nell’amministrazione della giustizia.[58]
La rivoluzione francese e le vittorie di Bonaparte in Italia sugli austriaci fecero il resto.
Il 24 luglio 1797, la legge 6 termidoro, anno V republicano, soppresse i fidecommessi[59] sia nel territorio della repubblica cisalpina sia nei paesi aggregati posteriormente al Regno d’Italia.
Con legge 22 pratile del calendario repubblicano, anno IV della nuova era, i francesi avevano abolito, in Lombardia, anche i privilegi ed i diritti giurisdizionali esercitati dalla nobiltà ed annessi ai feudi.
Poi fu la guerra agli stemmi: si combatteva l’aristocrazia e se ne voleva cancellare l’immagine distruggendone i segni esteriori.
A Concorezzo è parroco, dal 1766, don Angelo Antonio Maria Frigerio, il quale, da poco, ha passato i  sessant’anni. Nella chiesa parrocchiale del borgo i de Capitani hanno appeso, dai tempi d’oro del terzo conte della loro famiglia, “ ai piedi del Crocifisso, all’arcone del coro”  lo stemma  gentilizio che il parroco fa rimuovere in questo periodo di rivoluzione.
Il conte di Concorezzo è Pirro, di qualche anno più giovane di don Frigerio, che non contesta tale azione.
Ma al ritorno degli austriaci egli protesta con le autorità di governo per l’atto compiuto dal parroco. E il commissario imperiale, Coccastelli, ne informa Filippo Visconti, arcivescovo di Milano, il quale chiede informazioni al vicario foraneo in Vimercate.
I preti giacobini, o anche simpatizzanti delle idee portate d’oltralpe, non godevano, ovviamente, le simpatie degli austriaci.  Ne derivarono “disaprovazioni”, richiami, uno scambio epistolare del parroco con l’arcivescovo e dei vari organi governativi fra loro: quasi un affaire, insomma, archiviato, però, ben presto .[60] 
Intanto il  primogenito di Pirro, Giovanni Battista, aveva sposato in Milano “nella parrocchia di Santa Maria de’ Servi in San Carlo, il 10 novembre 1795 Giovanna-Renata-Giulia-Maria-Anna-Teresa-Aloisa, figlia del conte Alessandro Serbelloni-Sfondrati, nobile patrizio milanese, ciambellano di S.M.I.R.A. e maggiore nel Regio Cesareo esercito austriaco, poi duca di San Gabrio e Grande di Spagna, e della contessa Rosina, poi duchessa di San Gabrio, nata contessa (del Sacro Romano Impero) di Sinzendorf.[61]
Da questa unione nacquero, in Milano, un maschio e quattro femmine: Pirro Alessandro, Costanza Rosina, Rosina Giovanna, Francesca Maria e Laura Agnese.[62]
“In seguito a parere favorevole 18 febbraio 1816 della Regia Cesarea Commissione Araldica di Lombardia all’I. R. di Governo, Francesco I imperatore d’Austria, con sovrana risoluzione 28 gennaio 1817, confermò l’antica nobiltà col titolo di conte e gli riconobbe la riammissione del privilegio del titolo di Grande di Spagna ottenuta da S.M.I.R. Giuseppe II. In detto parere della Regia Cesarea Commissione Araldica esso conte Giovanni Battista viene indicato precisamente così: Giovanni Battista de Capitani di Sondrio e di Scalve; ed, invece, nell’Elenco ufficiale dei Nobili lombardi del 1828 trovasi indicato col semplice cognome de Capitani di Scalve, senza l’appellativo di Sondrio.
E si prosegue scrivendo che l’Università e corporazione dei nobili della città di Locarno, “Canton Ticino Svizzero, nel febbraio 1827 riconobbe, accettò e riconfermò il conte Giovanni Battista fu Pirro de Capitanei di Sondrio e Scalve e il di lui figlio Pirro Alessandro, e suoi successori, domiciliati in Milano, via San Pietro all’Orto 910,  essere discendenti dallo stipite di Alberto (sic) figlio di Chiaromonte (sic) figlio di Viviano ed appartenere alla illustre famiglia Orelli de’ Capitanei di quella città, e quindi competerli tutti quelli onori e prerogative inerenti ed aspettanti alle tre nobili famiglie Orelli de Capitanei, Muralti e Magoria di Locarno…
Presto sarà Giovanna, sua moglie, ad intervenire nella  direzione e gestione degli affari della casa a causa della salute del marito. In tutti gli atti ufficiali comparirà lei, infatti, quale procuratrice e amministratrice generale del sesto conte di Concorezzo.
Malgrado l’intervento di questa donna, considerata nel borgo la vera feudataria, però, la situazione economica dei  Capitani di Scalve va deteriorandosi.[63]
E l’unico figlio maschio, il primogenito Pirro, crea alla madre, che ha aderenze entro il Governo di Milano e nella Corte di Vienna, non pochi problemi.
Pirro  conduce, clandestinamente, una missione politica, insieme al marchese Benigno Bossi a Torino nel 1821, “per prendere accordi con i liberali.  Ed in Piemonte egli prende parte ai moti  scoppiati in quello, stesso anno.
Ne seguì l’esilio in Spagna, dove militò agli ordini di Gugliemo Pepe; passando poi in Inghilterra e, infine, a Parigi.[64]
Dal 1821 al 1830 i suoi beni vennero  posti sotto sequestro, anche quelli in  Concorezzo.
Rientrato in Milano nel 1830 fu processato per essersi illegalmente recato all’estero e fu condannato a morte come colpevole di alto tradimento, pena commutata in sei mesi di detenzione, che scontò nelle prigioni di S. Margherita”[65].
In questi anni la madre  era stata molto occupata tra  gli uffici di Governo in Milano e la Corte di Vienna, facendo ricorso a parenti ed amici, per salvare il figlio, che cesserà di vivere,(non ne viene indicata la causa) nella sua casa in Milano, il 10 maggio 1834, all’età di 37 anni, senza essersi mai sposato. “…e la di lui salma venne portata nel camposanto di Concorezzo”.
Il conte Giovanni Battista, suo padre, morirà due anni dopo, in Milano, nella parrocchia di S. Maria dei Servi in S. Carlo “ in causa di tabe polmonare (tisi)” l’11 ottobre 1836, a 64 anni, ed il giorno 13, “con superiore autorizzazione, la sua salma venne trasportata nella parrocchia di Concorezzo”.
Gli successe nel feudo di Concorezzo, in mancanza di eredi maschi, il fratello Carlo Pietro, nato il 2 aprile 1773, che “morì celibe, per encefalite, l’8 marzo 1841, di 68 anni, nella parrocchia di S. Antonio Abate, nel comune di Sant’Angelo Lodigiano, nell’attuale circondario di Lodi”.
Con il settimo conte di Concorezzo, Carlo Pietro, si estingue la famiglia de Capitani, cittadini milanesi. Giovanna Serbelloni, vedova di Giovanni Battista de Capitani, “…venne, invece, dall’Imperatrice Regina nominata sua dama di palazzo[66] ed, infine, dama dell’ordine della Croce Stellata nella promozione ordinaria del 14 settembre 1839.
Nel frattempo era passata a seconde nozze, in Milano il 10 febbraio 1839, con Luigi-Federico-Francesco-Maria Attendolo Bolognini, conte di Sant’Angelo, nobile patrizio milanese, ciambellano di S.M.I.R.A.
Morì a Milano, in causa di apoplessia, di  anni 76, il 26 agosto 1854.[67]
“La ricostruzione delle dinastie patrizie è sempre stata fatta seguendo lo sviluppo patrilineare…ne consegue che una famiglia viene considerata estinta allorchè viene a mancare l’ultimo discendente maschile in linea diretta.”[68]
Rosina Giovanna, figlia di Giovanni Battista de Capitani, maritata Carcano, ebbe un unico figlio maschio, Alfredo Giuseppe Carcano, nato in Bergamo il 26 luglio 1825.
“Egli è Cavaliere di giustizia dell’Ordine di Malta; proprietario attuale dell’antico palazzo de’ Capitanei di Scalve in Milano, in via S. Pietro all’Orto, già al civico numero 910 ed ora numero 15”- dove quella famiglia conservava il proprio archivio-, e Segretario di Governo presso la I.R. Luogotenenza di Lombardia”. 
A lui si deve una Genealogia dei Capitani di Scalve, ”cittadini di Bergamo, patrizi milanesi, conti di Concorezzo, grandi di Spagna di I^ classe, nobili della città di Locarno”,  fino a Francesco Lorenzo  ed Uberto Muzio Albertoni, figli di Luisa Giuseppa, sua sorella maggiore.[69]




Appendice

 

Genealogia


Familiae De Capitaneis, hoc nomine decoratae sub Ottone Magno Imperatore, qui intuitu hospitii a Viviano Claromontese, Conradi comitis Moguntiae olim Marescallo, eiusque fratribus in oppido Locarno, sibi per mensem praestiti, Albertum ipsius Viviani filium secum adductum anno 961 in Festo Hastiludii Mediolani habito, honorem reportantem, dignitate Capitanei in Valtellina, una cum descendentibus illustravit. Siquidem illo abhinc tempore floruit decore Imperiali Propago Capitaneorum in Valtellina et ab ea processere Capitanei Vallis Scalvae, a quibus itidem descenderunt comites de Capitanei mediolanenses Patritii. Munerum autem, quibus hujus Familiae Viri Toga Sagoque continuis temporibus functi sunt, ac Feudorum Imperialium Castellorum, aliorumque Regalium, quae possiderunt, mentio habetur in vetustissimo Chronico Veterii quod conservatur in Archivio Universitatis Nobilium in oppido Locarni; nec non in Annal. Bergomen., prout etiam apud Fanianum nobilem mediolanensem in suis manuscriptis, quae reperiuntur in Archivio D.D. Comitum et Judicum Collegiatorum Mediolani joanem petrum de crescentiis in Amphit. Rom. par. I pag. 200; bartholomeum corte Philosophum ac medicum mediolanensem in Notit. histor.; benedictum jovium, Hist. Novocomen. Lib. I pag. 41.
Plura etiam suppeditant Liber editus, cuius titulus est: Corona Nobilitatis Italiae et Memoriae historicae nobilis Jurisconsulti sitonis de scotia, mediolanensis; joan gulerius de wineck, lib. 12 Hist. Rheticae; petrus angelus lavizarius,  Memoriis Historicis Vallistellinae pag. 41; &c. &c…

(a)  Anno 493: Milo I, Rex Caenomannorum et Angleriae
                   Alion I, Comes
           498  Calvagnus
                        Perideus [70]
(b)                   Milo II, Rex Caenomannorum
  700  Alion II, Rex Caenomannorum              -750-
                 Hujus frater Milo III, cujus
            Uxor Bertha, Caroli Magni soror         [71]


           Rolandus Comes, propter maternam hereditatem, Comes Claromontanus

  778  Vivianus de Claromonte, Comes Angleriae
                         consanguineus Germanus comitis Rolandi
                 800 Viviani filius
                 858 Vivianus nepos, a comite Lamberto occisus
                 880 Viviani pronepos
                 900  Robertus de Claromonte abnepos Viviani, Comes in Lotharingia 


Filii Roberti: Landolfus, caput familiae de Muralto; Aurelius, caput familiae de Orello; Vivianus, caput familiae de Magoria. Ex his tribus familiis constat Universitas Nobilium de Locarno.
Albertus, alter ex filiis Viviani Claromonte investitus fuit ab Othone Magno de Burgo Sondrii et de aliis Ditionibus in Valletellina cum titulo Capitaneatus.
Et Descendetibus agnominati fuerunt Capitanei de Sondrio.
Filii Alberti: Hugo, Conradus et Jacobus a quibus multum propagata fuit Familia, quae in Valle de Scalve multas possedit jurisdictiones.
Ab Jacobo: Venetianus I, ex Capitaneis de Sondrio
Venetianus II et
Raimundus,[72] supremus Praetor Bergomi anno 1219 tempore quo Civitas uti Repub. se gubernabat, investitus fuit de Valle de Scalve, una cum Patre suo:
Venetiano I
Venetiano II et Jacobo, fratribus et agnatis unde dicti sunt Capitanei de Scalve.
Lanfrancus, filius Venetiani II
Pellegrinus, filius Lanfranchi
Franciscus, filius Pellegrini
Petrus Laurentius, filius Francisci; eius uxor: Helena ex comitibus de Caleppio, bergomensibus.

   
Venetianus II et
Raimundus,[73] supremus Praetor Bergomi anno 1219 tempore quo   ipsa domo ubi Galeatius II inhabitabat: Teste Corio part, 3 , et nunc quoque anno 1740 ibi hac Familia moram trahit. Uxor Apolonia ex comitibus de Benaliis, Bergomensibus.
Petrus, filius Absalonis, Decurio anno 1513, qui a Maximiliano Sfortia, Mediolani Duce electus fuit ad jurandum nomine suo.  = soror: Catherina, uxor Equitis Francisci Suardi =
Uxor, Donetta Coria ex nobilioribus Familiis Mediolani.
Christophorus, filius Petri
Uxor, Cecilia Ghisulfa mediolanensis, ex Regum Longobardorum sanguine, ut videri ex Memoriis Historiographi Nob. J.C. Sitonis de Scotia mediolanensis. (citato nel testo)
Phyrrus, filius Christophori, 1576
Uxor Paula Gallarati mediolanensis Magni Jacobi Trivultii et generalis Jacobi Biraghi abnepos de qua Corona Nob. Ital., par. I, f. 178, et par 2, f. 716.  = frater: Augustinus ex Collegio Comitum Equitum et Judicum Mediolani, in Romana Curia Prelatus utriusque signatura. Referendarius, Gubernator Thipherni et Beneventi, et sub pontifice Pio IV Nuntius Apostolicus in Hispania (e arciprete di Monza)
Caesar, filius Phyrri, ex XII Viris Provisionum Civitatis Mediolani 1591
Uxor, Helena, comitis Fulvi Rabiae, medionalensis, filia.
Daniel, filius Caesaris, Centurio, nec non Cursor Major pro S.C. 11  = frater: Franciscus, Dux cohortis bis centum militum=
Uxor, Marianna ex comitibus Marlianis, Vallis Intelvi et Burgi Mariani Dominis


ariani Dominis



Una schematica, ma chiara, Genealogia dei Capitanei de Scalve, conti di Concorezzo, con inizio da Pietro Lorenzo, fisico, 1435 e termine a metà Settecento con il 3° conte di Concorezzo, Pirro, ed il figlio Giovanni Battista, si trova in Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi, manoscritto anonimo, conservato nella Biblioteca Nacional di Madrid.





BLASONATURA

Il termine arma è considerato sinonimo  di stemma, anche se  questo viene utilizzato per indicare solo lo scudo araldico, una componente dell'arma,  con gli ornamenti esteriori. Tali ornamenti, come elmo, mantello, corona  evidenziano il grado di nobiltà, le funzioni, il rango del titolare…

ARMA  gentilizia del conte Pirro de Capitani di Scalve
per decreto del R. I. Consiglio di Governo 22 aprile 1789: Codice araldico di Lombardia, pag. 205.
Dalla descrizione manca, però, elmo ornato di piume di rosso e  sono variate altre parti, come e col cimiero di una donna al naturale, nascente, vestita di rosso, colla veste ornata d’oro intorno al collo e sul seno…. 
Inquartato (è lo scudo diviso in 4 parti uguali da 2 linee, 1 verticale e l’altra orizzontale che passano ambedue per il centro, P. GUELFI CAMAIANI, Dizionario araldico, Milano 1940, alle voci): al primo; d’azzurro a sette corone d’oro, gemmate, sostenenti tre fioroni visibili, e due perle, pure visibili, poste 1, 2, 1, 2, 1: al secondo; fasciato, tre pezzi d’argento e tre pezzi scaccati di nero e d’argento, le fasce d’argento cariche di sei busti d’uomini, i quali busti d’uomini potrebbero forse essere rocchi di scacchiere, raffigurati come teste e busti d’uomini al naturale, coperti  il capo di un cappello acuminato ed a larghe tese pure di rosso, in maestà nascenti dallo scaccato, posti 3, 2, 1: al terzo; d’argento, a quattro fiordalisi d’oro, per inchiesta, posti 1, 2, 1: al quarto;  d’azzurro al sole orizzontale, destro d’oro, figurato di rosso, accompagnato  da una rupe al naturale movente dal canton  sinistro della punta: sul  tutto; d’oro all’aquila di nero, coronata del campo ( indica che 1 figura ha lo stesso smalto del campo dello scudo); lo scudetto ( piccolo scudo posto nell’arme come qualunque altra figura, spesso sta sull’inquartatura o sulla partizione), cimato da corona comitale: cimiero; una figura umana al naturale, vestita di rosso, colla veste ornata d’oro intorno al collo e sul petto, stretta alla cintura, e coperta di un tòcco pure di rosso, impugnante, colla mano destra, una picca al naturale, frangiata di rosso, in banda. Corona (indica il grado di nobiltà) e manto di Grande di Spagna; e cioè: corona consistente in un cerchio d’oro, gemmato, sostenente otto fioroni, cinque visibili, pure d’oro, e carichi ciascuno di una perla; e manto di velluto chermisino, guernito di frangia d’oro e foderato d’ermellini, ed annodato in alto con cordoni d’oro terminanti in  fiocchi pure d’oro.
Dei punti dello stemma descritto: il 1°, il 2°, il 3° ed il 4°, secondo la tradizione, tutti e quattro, di Roberto di Chiaramonte (vedi Tavola di Prefazione); il 2°, portato solo, era speciale dei Capitani  di Sondrio; lo scudetto sul tutto, portato solo, è speciale dei Capitani di Scalve; per il loro stemma del 1789: asmi, Fondo Araldica, p. a., De Capitani,  cart. 62.
  
I de Capitani di Scalve usavano il motto: PULCRA FACIE ET PULCRIOR FIDE.  Tale motto era scritto sopra un listello tenuto colla mano dalla figura umana del cimiero, e disposto in modo che svolazzava in fascia sul di lei capo.







Il conte Pirro Alessandro dei Capitani di Scalve: un patriota  del 1821



Malgrado l’intervento di questa donna, considerata nel borgo di Concorezzo la vera feudataria, la situazione economica dei  Capitani di Scalve va deteriorandosi. Giovanna Serbelloni, Rosina era figlia di Venceslao conte (del Sacro Romano Impero) di Sinzendorf, burgravio a Reinegg, conte e signore di Sinzendorf e Thanhausen, tesoriere ereditario del S.R.I., ciambellano di S.M. Romana Imperiale Reale e della contessa Maria Antonia, nata contessa del S.R.I. di Harrach. Nata a Vienna nel 1754,  morirà a Milano il 19 aprile 1837.


Soffermàti sull' arida sponda…
L' han giurato: altri forti a quel giuro
rispondean da fraterne contrade,
affilando nell' ombra le spade….

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NOTE

 1 dante e. zanetti,  La demografia del patriziato milanese nei secoli XVII, XVIII e XIX,  Università di Pavia 1972 con  Appendice genealogica di franco arese lucini, p. 12.
 2 Nel  XVII  secolo il  dominus  venne sostituito da  don.  Cfr. anche f.calvi, Il patriziato milanese, in asl 1874, da p. 414. 
Con proclama del 31 dicembre 1796 Dupuy, comandante francese della piazza di Milano, ordina la distruzione di tutte le armi gentilizie, blasoni, scudi, stemmi ecc.  Qualche strascico dovette seguire, anche dopo il 1815,  se il Porta  scriveva: Sissignor, sur Marches.. …e mi sont el sur Carlo Milanes, e bott lì!  senza nanch on strasc d’on Don (Sissignore, signor Marchese…e io sono il signor Carlo Milanese, e fermo lì!  senza neanche uno straccio di un Don):  c.porta, Le poesie, Feltrinelli editore,1964, vol. I, p. 200.
“ Al posto del dominus  sottentrò il don, nel secolo decimosettimo, il solo titolo ufficiale a cui il patriziato avesse diritto, anche dopo che fu assorbito dalla nobiltà. Fu negli elenchi ufficiali dei consiglieri comunali dell’anno 1833, che si introdusse dalla autorità municipale l’uso di sostituirlo coll’appellativo di  nobile ”, f.calvi, op. cit., p. 424
 3 c. manaresi, I prefissi d’onore e la prammatica del 1591,  in ASL,  25.1.1919, Serie V^, pp. 488-490. Cfr. pure lynn townsend white, Tecnica e società nel medioevo , Milano 1967, passim.
4 g.b.angelini, Osservazioni genealogiche fatte sopra le pubbliche antiche carte intorno agli estimi cognomi e titoli delle famiglie per la civiltà e nobiltà loro, ed esposte alla comune notizia con l’aggiunta di utili avvertimenti ad ogni buon fine del prete Giovanbattista Angelini da Bergamo nel presente libro, p. 60 (ms. del XVIII secolo conservato nella Biblioteca Civica di  Bergamo).
 5 c.cremonini, Il “Gran Teatro” della nobiltà. L’aristocrazia milanese tra Cinque e Settecento, in Teatro genealogico delle famiglie nobili  milanesi, vol. I, Mantova 2003, pp.15-16. Qui compaiono anche i Cavanaghi, già presenti alla corte di Filippo Maria Visconti, quali conti di Concorezzo.  Eredi dei Cavanaghi nelle proprietà  in Concorezzo erano stati nel XVI secolo i Visconti che rimasero nel borgo fin quasi alla metà del Settecento.
 6 Principali: fonti documentarie esaminate: Archivio Storico Civico di Milano (A.S.C.M.) e Biblioteca Trivulziana; Archivio della Curia Arcivescovile di Milano (A.C.A.); Archivio di Stato di Milano(ASMi); Archivio di Stato di Cremona; Archivio di Stato di Pavia; Biblioteca dell’Università di Pavia; Biblioteca Ambrosiana(B.A.); Biblioteca Nazionale Braidense (B.B.); Biblioteca Civica di Bergamo; Archivio famiglia dei conti Suardi; Archivio della famiglia Serbelloni (A.S.C.M. e ASMi); famiglie Arese, Gallarati e parrocchia di S. Pietro all’Orto, per la parte conservata nell’A.C.A. ed un’altra  nell’Archivio di  S. Maria dei Servi in  S. Carlo. 
Elenchus familiarum in Mediolani dominio, feudis, jurisdictionibus titulisque insignium, di J.Benalius Mediolani 1714;  Theatrum genealogicum familiarum illustrium, nobilium et civium inclytae urbis Mediolani, Johannes de Sitonis de Scotia  JC mediolanensi,  anno Virginei Partus MDCCV  (ASMi).
E di  r. fagnani, Commenta familiarum manuscripta, voll. 9 in folio, (B.A.).  Un’opera questa del Fagnani, nato a Gerenzano nel 1552 e morto a Milano nel 1623, nella quale sono raccolti per circa 1300 Famiglie milanesi un’infinità di documenti tratti per lo più dai pubblici  Archivi. 
Tra le fonti letterarie: consultare,  Storia di Concorezzo, 1978, passim, f. pirola, per ciò che rimane della ricerca condotta, negli  anni sessanta del Novecento,  che comprendeva pure la famiglia de Capitani,  coadiuvato  dal Barni e dal  conte Franco Arese.  L’Arese discendeva, infatti, da Marco Arese  degli   antichi Capitani di Arese, confeudatario della pieve di  Seveso, che sposò,  il 24 ottobre 1610, Elena Rabbia  vedova di Cesare de Capitani,  nell’oratorio campestre di S. Vincenzo a Concorezzo, dove i Rabbia possedevano molte proprietà, ed erano comproprietari  con i  de Capitani  della cascina Barbavara, che aveva preso il nome dalla famiglia presente alla corte viscontea ed in quella sforzesca.
Marco Arese morirà nel 1628, all’età di 50anni; Elena Rabbia morirà nel 1652, dopo avere dato due figli a Cesare de Capitani, Daniele e Francesco, ed otto a Marco Arese. 
Cfr. anche  e.casanova,  Nobiltà lombarda  genealogie, f. 18.
Franco Arese, che ha dato alle stampe Genealogie patrizie milanesi (1972), non vi ha inclusa quella dei Capitani di Scalve, salvo che per alcuni vincoli matrimoniali con le 23 famiglie comprese nelle sue Genealogie.  Cfr. nuovamente: f.calvi, Il patriziato milanese secondo nuovi documenti depositati negli archivi pubblici,  Milano 1875.
 7 g.zanetti, Il Comune di Milano dalla genesi al consolato fino all’inizio del periodo podestarile, in ASL 1934, fasc. IV, capitolo III, p. 523.
Fra le maglie del feudalesimo ecclesiastico si va infittendo, come conseguenza della politica francone, la trama autonoma e fitta del feudalesimo minore laico… L’infittimento feudale ha come conseguenza l’infittimento dei castelli….
 8 Cfr. ASMi, Araldica p.m., alla voce, c. 97.
La Genealogia, che il terzo conte di Concorezzo, Pirro, aveva fatto ricostruire in latino, ad usum Delphini,  durante la sua fortunata esistenza ed alla quale  i de Capitani si rifacevano di generazione in generazione, ma che non arrivò forse  al Tribunale Araldico e di conseguenza non entrò mai a far parte del Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi, non consente una verifica, non almeno sulla base dei dati forniti in tale “ricerca” per le origini della dinastia. Si parte, infatti, dal 493 per arrivare al 900, coinvolgendo i  re dei Cenomani   e, Bertha, sorella di Carlo Magno, e proseguire fino al Settecento.  In  Appendice viene riportata la prima parte della Genealogia, che non compare nelle Genealogie  dei de Capitani di Scalve, più o meno ufficiali, dal secolo XVI in avanti.
Con il termine genealogia, che costituisce una delle discipline ausiliarie della scienza storica, si  tende solitamente ad indicare la elencazione di un certo numero di nomi di soggetti, collegati fra loro da un rapporto di parentela. Ma in questo caso,  come in  altri, non è sempre possibile, specialmente per i tempi più lontani, valutare l’attività di preparazione, di studio e di  ricerca che ha sotteso la ricostruzione storica di  questa serie di nomi. Per non dire dei rapporti reali intercorsi tra le persone di un simile mosaico. 
Al tempo in cui i de Capitani di Scalve fanno iniziare la genealogia della loro famiglia, Locarno rientrava fra i territori variamente soggetti ai re italici.
9 g.p.bognetti,  Studi sulle origini del comune rurale, Milano 1978, pp. 370-381.
Landolfo il Vecchio scrive che i capitanei avrebbero creato i valvassori per meglio conservare i loro privilegi; e che  essi  erano, forse, nobili di campagna.
 10 e.besta, I Capitanei sondriesi,  Torino 1912, pp. 1 – 6, 17 – 19: testo edito da e.de muralt nel Codex diplomaticus Capitaneorum locarnensium e della Val  Chiavenna, vol. I, p. 185, Milano 1955 (Raccolta Studi storici sulla Valtellina).
11 e.mazzalig.spini, Storia della Valtellina e della Valchiavenna, 1968, vol. I, p. 58;  e
 p.s.quadrio, Dissertazioni critico-storiche intorno alla Rezia di  qua dalle Alpi, oggi detta Valtellina, Milano 1755, tomo I.
12 m.lupi, Codex Diplomaticus Civitatis et Ecclesiae Bergomatis, Bergomi, Ex Typographia Vincentii Antoine, MCCIC,  tomo II, libro IV, p. 624, Ottone I, imperatore, si sarebbe interessato nello stesso periodo anche della Valle di Scalve. (Mario Lupo, storico e canonico bergamasco).
Ed a.mazzi, Studii Bergomensi,  Bergamo 1888.
13 g. romegialli, Storia della Valtellina e delle già contee di Bormio e di Chiavenna, Sondrio 1834.
Gli autori della Storia della Valtellina, Mazzali e Spini, osservano, però, che “Il titolo nobiliare era giuridicamente del vescovo di Como, che aveva ottenuto nel 1006 la metà del viscontado di Valtellina dall’imperatore Enrico II. Dunque non è escluso che questa proiezione dell’autorità di Alberto verso la Valtellina risponda a un filo, magari sottile, di verità. Né è escluso, contrariamente a quanto opina il Besta, che una radice comune ticinese legasse i tre capitanei di Sondrio, Teglio e Stazzona…”, p. 67.
Si potrebbe, forse,  consultare anche il primo ed il secondo dei 10 libri di  p.a.lavizzari, Memorie istoriche della Valtellina, ediz. del 1838.    
14 p. pensa, Dall’età carolingia all’affermazione della signoria, in  Storia religiosa della Lombardia –Diocesi di Como, 1986, pp. 46-52; c. donati, L’idea di nobiltà in Italia. Secc. XIV-XVIII, 1988.
 15 e. mazzali-g.spini,  op. cit., vol. I. pp. 68-69. “Gli istituti del capitaneato, dell’avocazia e della contea si svuoteranno del  loro contenuto politico e giudiziario: resisteranno come semplici privilegi e benefici economici e come titoli nobiliari, quando nel corso del Trecento si verranno costituendo forti signorie e i poteri emaneranno direttamente dal signore…All’inizio del secolo i capitanei di Sondrio, Corrado e Ruggero, staranno con i Visconti.  Questo ramo si estinguerà nel 1436, p. 120.
16 e. bonaldi, Valle di  Scalve, Milano 1965, pp. 366; cfr.  le pagine, dalla 17 alla 63. “…due sono i motivi principali che fin dai tempi remoti indussero gli scrittori (Plinio nella sua Historia naturalis) a interessarsi della Valle di Scalve: la sua ricchezza mineraria e le sue bellezze naturali…In antico si chiamava Vallis Decia, da Decio imperatore, nome che conserva tuttora il fiume Dezzo…sul nome di Scalve non tutti sono d’accordo. Alcuni vorrebbero Scalve derivato da scalpere =scavare= a motivo delle numerose miniere che vi esistevano…altri attribuiscono scalpere all’escavazione operata dal fiume Dezzo lungo i secoli…Certo è che la valle è scavata in ogni senso e dalla natura e dall’uomo…”, pp. 17-18.
17 “Con pubblico istromento 6 novembre 1222,  a rogito di Lanfranco Sosena, notaro del Sacro Palazzo, Giovanni vescovo di Bergamo fece locazione perpetua in Veneziano  e nei  suoi figli Giacomo e Raimondo , in Raimondo figlio del fu Ghislanzone, in Rogerio  fu Giovanni, in Enrico fu Cavalcaselle ed in Viviano fu Alberto tutti de Capitaneis de Scalve e tutti cittadini di Bergamo…”, dalla Genealogia  dei Capitani di Scalve, cittadini bergomensi.
 18 Il documento si  trova  nell’Inventario degl’Istromenti della Valle di Scalve, al foglio 103 e porta la data 6 novembre 1222.  Ma i  Capitani di Scalve avevano già conseguito in parte i diritti feudali prima dell’investitura del 1222 , per cui  essi pervennero così al possesso della totalità di tali diritti.  e. bonaldi, op. cit. pp. 58-59.
19 e. bonaldi, op. cit., pp. 59-60. 
Nel  XIV secolo la Valle passerà sotto i Visconti  e nel XV secolo sotto la Repubblica di Venezia.
20 Il nome di Filippo e la data qui segnata non compaiono, però, nella Genealogia dei Capitani di Scalve, cittadini bergomensi. Compare, invece, Giacomo “defunto padre di Veneziano in un istromento di convenzione, rogato nel 1251, indizione nona, da Pietro Lanfranco Rocca, notaro pubblico bergomense.”
21 Questo si legge nella Tavola IV della Genealogia della Famiglia de’ Capitanei da Scalve e dalla quale si apprende  dell’”Arma: d’oro all’aquila di nero, coronata del campo. E che: “Nel  convento di  S. Francesco in Bergamo si trovava sotto un’arcata a sesto acuto il monumento della famiglia de’ Capitanei da Scalve” con un’iscrizione in latino posta tra una croce scolpita ed uno scudo scolpito. Haec volta cum sepulchris in ea constructis    factis fuit M.CCC.VII.”
22 a. s. c. m.,  Fondo Famiglie, cart.  577 ( Una storia dei Capitani di Scalve, in latino).  
f. argelati,  nel volume I di Bibliotheca Scriptorum Medionalensium  seu Acta et Elogia virorum…, in Aedibus Palatinis, 1745, pagina 279,  attribuisce a Galeazzo Maria, duca di Milano dal 1466 al 1476,  il dono ad Assalonne de Capitani, medico ducale, figlio di Pietro Lorenzo noto fisico morto a metà del Quattrocento, di una casa in Milano, Porta Orientale, San Pietro all’Orto parrocchia di San Babila dove questa famiglia abiterà fino alla sua estinzione. 
Mentre nelle carte della famiglia de Capitani  è scritto che fu il duca Francesco Sforza a donare ad Assalonne “un palazzo nelle parrocchia di San Pietro all’Orto, nel quale aveva dimorato Galeazzo Visconti (nel secolo precedente).
Esso Assalonne è detto, quindi, abitante nella parrocchia di San Pietro all’Orto in un istromento rogato il 19 gennaio 1460 dal notaro Ludovico de Leporibus, col quale istromento, esso Assalonne, in presenza del nobile ed egregio uomo signor Beltramino da Besozzo, console di giustizia di Milano, fece acquisto di una proprietà nel territorio di Parabiago. Testò con istromento rogato in Milano, nella parrocchia di San Pietro all’Orto, il 7 agosto 1474, dal notaio Pietro de Leporibus, istituendo erede Pietro suo figlio legittimo e naturale.
Il 29 aprile 1486 gli venne posto un epitaffio su marmo nel Cenobio della Pace. Ebbe in moglie Apollonia dei conti Benagli, da Bergamo.
Il figlio Pietro fu dottore nelle arti liberali e nella medicina. Ebbe in moglie Donnetta Corio, di famiglia patrizia milanese.”  Anche il figlio di Pietro, Giovanni Cristoforo, eserciterà la professione del padre. Sua moglie, Cecilia Ghisolfi, milanese,  per il  Sitoni,  avrebbe tratto le proprie radici “ ex Regum Longobardorum sanguine”.
 23 Da Clara Leonarda de Capitani e Cesare Porro nacque Leonarda Porro, la quale sposò Antonio Porro e fu madre di Daniele, di Cesare e di Pietro, francescano. Daniele Porro, dal canto suo, condusse in moglie Bianca Missaglia e lasciò una primogenitura a favore della famiglia de Capitani, escludendone il fratello Cesare ed il nipote Antonio. A seguito di questa primogenitura  i de Capitani aggiunsero al loro il cognome Porro.
Questo loro legame di parentela ce li  farà incontrare a Meda, pieve di Seveso, dove i Porro hanno proprietà che i Capitani  di Scalve erediteranno dal figlio di Cesare, Daniele.
Qui, nella villa, divisa dalla chiesa dall’ex monastero di S. Vittore, la cui costruzione sarebbe iniziata nella seconda parte del Cinquecento e terminata alla metà del Seicento, risedettero i de Capitani di Scalve. In essa sono conservati i medaglioni  di  personaggi  della famiglia con relativa storia.
La villa passerà, alla fine, ai  conti Carpegna Melzi d’Eril.
A Meda tra il 1619 e il 1633, anni in cui la fame fa da padrona, Daniele acquisterà altre proprietà dai Lanzani e dai Cimnaghi. Già Cesare, suo padre, aveva permutato beni in Meda con Antonio de Lomatio fu Ambrogio nel 1588.
I de Capitani di Scalve si trovano ancora a Meda sul finire del Settecento. Cfr. anche R. MAFFEO, Un progetto del 1783 per deviare il torrente Certesa al fine di migliorare l’irrigazione dei boschi di Meda e Seveso, p.24,  i  Quaderni della Brianza, n.104, gennaio-febbraio 1996.
 24 Cfr. Statuta et ordinationes dominorum phisicorum Collegii Mediolanensis, Mediolani, per gottardum de ponte, 1517; dei quali l’XI recitava: Nessuno si ammetta o si riceva nel Collegio dei medici  se non  cittadino di antica data - non per credenziali-  originario di Milano o del ducato ed appartenente a discendenza nobile ed antica di  almeno 120 anni.
Nell’insigne collegio dei fisici si ricevevano solo coloro che offrivano prove di nobiltà,  scrive anche  f. calvi,  op. cit., p. 416.
25 Questo Pirro acquista  i primi beni immobili in Concorezzo nel 1583: ASCM, Famiglia de Capitani , c. 578.
Vengono anche segnalati, per lo stesso Pirro, i notai G. Giacomo Crivelli: 10.4.1562 e Paolo Omati: 19.8.1573.
26 Marc’Antonio Gallarati  aveva dettato  il suo testamento il 17 settembre 1580  al notaio Pomponio Bosisio fu Fabrizio, rubriche ed istromenti passati poi al notaio Prospero Carnaghi. Egli volle, dopo la sua morte, essere portato a Concorezzo e seppellito nella chiesa di S. Damiano in cui era sepolta sua madre. 
La famiglia Gallarati, a metà ‘500, ha una cappella nella chiesa del monastero di S. Angelo in Milano, nella quale il pittore Gaudenzio Ferrari affrescò Il martirio di S. Caterina. Nella medesima chiesa anche i Trivulzio avevano una cappella. Cfr. ASMi, Trivulzio,  registri, 10b f. 90.  Qui troveranno sepoltura in avvenire i de Capitani, salvo alcuni a Concorezzo o a Meda.
Pure l’altra sorella del Gallarati, Margherita, che aveva sposato Giorgio Crivelli  dal quale aveva avuto un figlio, Fabrizio, riceverà una parte di eredità. 
 27 Cfr. Memorie storiche di Monza e sua Corte, raccolte ed esaminate dal canonico anton francesco frisi, teologo della basilica  collegiata di S. Stefano Maggiore in Milano e socio di varie accademie d’Italia. In 3 volumi, Milano MDCCXCIV, tomo I, cap. V, p. 42. g. marimonti,  le integra nelle sue Memorie, Monza 1841,  e  riporta, a p. 306,  la Serie cronologica degli arcipreti di Monza colla nota degli anni ne’ quali trovansi le prime e le ultime loro memorie. 
E, presso  ASMi,  johannes de sitone di scozia, Theatrum  genealogicum cit., f. 112.
E’ assai probabile che Agosto de’ Capitani di Scalve abbia conosciuto Carlo Borromeo  al tempo in cui questi si trovava alla Corte di Pio IV, suo zio. E quando il Borromeo fu a Milano, quale arcivescovo,  chiamò il  de Capitani, non più giovane come lui e certamente esperto della vita curiale, a reggere la Chiesa di Monza che da secoli rivestiva una posizione di rilievo nei suoi rapporti con Milano. Ma questo non è sufficiente a completare il nostro quadro: sarebbe necessario  conoscere più a fondo spirito e condizioni del  de Capitani  almeno in quel momento.         
 28 Istromento rogato a Milano il 5.3.1593 dal notaio Genesio Calco fu Gio. Antonio.
 29 Come ho accennato in nota 6.
Dal 1626 Cesano Maderno fu feudo degli Arese e poi dei Borromeo. Inoltre, per due generazioni gli Arese gestiranno la presidenza del Senato milanese
 30 I Silva erano grandi proprietari in Concorezzo. Il matrimonio fu celebrato il 25 settembre 1582: testimoni il conte Fulvio Rabbia, Gerolamo Melzi e Francesco Brugora, tutti proprietari nel borgo, ma tutti residenti  a Milano.  Notaio Dionisio Legrantia fu Domenico. Annibale Silva ha 28 anni. Dal loro matrimonio nasceranno 7 figli:  Anna Vittoria, Ippolita, Giulia, Agostino Baldissare, Ottavia, Anna Beatrice e Carlo Francesco ( pochi  sopravvissuti  alla prima infanzia). 
31 Nella genealogia della casata compare  Giovan-Battista-Melchiorre-Daniele.
Daniele che fu , nel 1610, anche l’erede universale di Giulio Vimercati  fu Gio. Francesco di Vimercate, parente dei  Silva: rogito del notaio Ottaviano Oraboni  fu Gio. Pietro.
Egli, inoltre, sarà ricordato nella chiesa  delle monache di S. Lorenzo in Vimercate con tre offici  funebri ogni anno. Cfr. anche e. cazzani,  L’Archivio plebano di Vimercate,  cart. XIV  fasc. 5°.
 32 Cinque di questi figli furono femmine, delle quali due entrarono in convento; altre due nacquero a Concorezzo nel 1632, gemelle, Teresa e Paola. Teresa sposerà, il 26 agosto 1653, Maurizio Arcimboldi, marchese di Arcisate.
Tra Cinquecento e Seicento,  ed una  parte del Settecento, vi fu un uso rigoroso, nelle famiglie della nobiltà milanese, del maggiorasco abbinato ad un equilibrio numerico fra i cadetti destinati alla carriera ecclesiastica o a quella militare e le figlie alla vita monastica, salvo eccezioni nell’interesse della famiglia.
 La moglie di Daniele, secondo l’estensore di una bozza di Genealogia dei Capitani di Scalve, sarebbe morta a Concorezzo tra il  1632 e il 1637. 
33 Impegnata in continue guerre, con un fisco sempre pericolante, la Spagna non poteva non trasferire in appalto entrate di ogni sorta e l’esercizio postale fra  queste.
In altra fonte si legge che Daniele fu Correo Mayor anche dal 1647 al 1660. Era il Magistrato ordinario dello Stato di Milano, inerendo ai reali dispacci del re di Spagna, ad emettere le grida di conferma dell’investitura postale. Questo Magistrato controllava le imposte dirette e indirette, ordinarie e straordinarie. Mentre il Magistrato straordinario controllava l’amministrazione dei beni feudali, metteva all’asta i feudi vacanti, concedeva esenzioni e deroghe e provvedeva alla riscossione delle entrate.
Compaiono alcuni dei notai che rogarono per Daniele: G. Antonio Crippa (11.12.1624); Fabio Cattaneo (16.10.1630); Palamede Staurenghi (9.2.1640) e Francesco Gerolamo Rubeo (20.12.1651).
 34 Cfr. a. dionisio, Gli Stampa di Soncino. Politiche territoriali di una famiglia aristocratica nella Lombardia dell’Ottocento, in  ASL  1997, pp. 213-215.
 35 Lo si desume dalle perizie estimative ed alcune dettagliate descrizioni dei loro possedimenti  terrieri  contenute in  atti notarili e catastali.
 36 Cfr. f. pirola,  op. cit., p. 248-250.
Fino al 1690 Concorezzo non risulta sia stato mai infeudato. L’1.1.1475, infatti,  quando gli Sforza concessero Vimercate e sua pieve in feudo ai Secco (Borella), Concorezzo non vi era stato incluso. Lo conferma la “comparizione” del console della Comunità di Concorezzo il quale ciò sostenne “prestando giuramento di fedeltà alla Regia Camera il 12.6.1602.”
 37 A.S.C.M., Fondo località foresi,  c. 52.      
Il 3.9.1620 compare un bando per “ la vendita in feudo del luogo di Concoreggio con il luogo di Agrate “, con la richiesta di lire 14mila imperiali.
Il 2 novembre 1682 Pirro avanza istanza per ottenere in feudo la terra di Concorezzo, accordandogli il titolo di conte sulla medesima, al conte de Melgar, il quale la inoltra a Carlo II  il 19.8.1684. 
Il 6 luglio 1685 il Magistrato straordinario ordina che siano esposte le cedole intendendo vendere il feudo di Concorezzo. E  si prenda, pertanto, nota delle oblazioni.
Ma è con l’ordinanza del 30 luglio 1685 che il feudo della terra di Concorezzo, posto in vendita, si avvicina sempre più ai de Capitani di Scalve.
Il 21.1.1686 il Magistrato  chiede se vi sono state oblazioni. Dieci giorni dopo si risponde negativamente. Ed il 12 febbraio si scrive, sotto la stessa richiesta del Magistrato, che non vi sono state oblazioni né per la compera né per la  redenzione di  questo “feudo ducale”.
“ Nel 1600 si vendevano al Broletto tenimenti feudali con estesi diritti di giurisdizione, proventi di dazi ecc. e la smania di possederne era cresciuta a dismisura per l’imperare della boria e del fasto spagnolesco, e il governo ne traeva cospicuo lucro…all’aprirsi del Settecento la nobiltà godeva privilegi civili e immunità fiscali e giudiziarie di gestione quasi esclusiva degli interessi  comunitativi, di monopolio delle cariche più importanti,  di diritti di giurisdizione sugli uomini del feudo…” g. tivaroni,  L’Italia prima della Rivoluzione francese, Torino, Roux 1888, p. 149.
 38 E’ scritto nel  testamento in 40 fogli a stampa, ad una sola facciata, dettato da Pirro il 30 ottobre 1689, (in altra carta si legge: “…ora abitante nel Borgo di Concorezzo per le vendemmie…”); e conservato in A.S.C., Famiglie. In esso sono contenute notizie, sia su Pirro che sulla famiglia, non tutte presenti nelle varie tavole genealogiche dei Capitani a partire dal Cinquecento. v. forcella, Milano nel secolo XVII,  Milano 1898, pp.53-54  scrive che per la pace tra Francia e Spagna del 7.11.1659, Milano  fece coniare una medaglia d’argento “a commemorare un sì  fausto evento” con lo stemma della Città ed altri due stemmi, del Vicario di Provvisione, che era Pirro de’ Capitani di Scalve, e del provicario, Barnaba Barbò,  con la leggenda.
Nel 1679 Pirro venne nominato con Antonio Della Porta ambasciatore presso la Corte di Madrid per fare conoscere le estreme miserie dello Stato “ed implorare rimedio alle afflizioni presenti”. Dal 1660 al 1679 non era stato ammesso alla Corte alcun ambasciatore di Milano. Ma fino all’ottobre del 1681 fu rimandata la loro partenza: Cfr. angiolo salomoni, Memorie storiche diplomatiche degli ambasciatori, incaricati d’affari, corrispondenti e delegati che la città di Milano inviò a diversi suoi principi dal 1500 al 1796, Milano MDCCCVI , Capo LXXXVI, Legazione di Pirro Agostino de Capitani di Scalve e di Antonio Della Porta a Carlo II nel 1681, pp. 386-388. Il Salomoni è bene informato anche su Pirro.   Però non dice perché Pirro fu in Spagna  nel 1666 , come si legge nel suo testamento del 1689.
 
 39 In Fondo Finanze p.a., c. 180 , ASMi,  Giovanni Gallarati compera dalla Camera ducale il dazio dell’imbottato  di Concorezzo, Passirano, Agrate; Galeazzo Maria Sforza lo vende alla famiglia Secco nel 1476 l’anno successivo al loro insediamento nel feudo di Vimercate e da allora, o l’un dazio o l’altro (pane, carne, fieno) passa di mano arrivando ai de Capitani al principiare del Seicento dalla Comunità di Concorezzo.
Il 28.9.1622 ecco il nome di Daniele Porro de Capitanei  e nel 1689 quello del conte questore Pirro assieme al dazio del fieno e all’osteria del borgo.
Nel 1691 essi hanno i dazi del pane, vino e carne, oltre l’imbottato.
Il 22. 3. 1672  il  rev. don Bernardino Sirtori  fu Gio. Paolo, cappellano del Collegio dei Giurisperiti di Milano,  acquistò dal conte Donato Silva fu Gio. Antonio, che lo aveva dal 20. 12. 1645, (notaio Giuseppe Baciocchi) il dazio del fieno dell’osteria del borgo per “il dottor Pirro de Capitani, giudice dei dazi nello Stato di Milano per reale privilegio” (nel 1674 egli godeva già da 12 anni “la giudicatura dei dazi  regi”).
Oltre alla costituzione ed il rafforzamento del patrimonio immobiliare non si  trascurava  l’investimento in beni fondiari ed in capitali per ottenere rendite costanti attraverso l’esercizio di  censi, prestiti, affitti e livelli che contribuivano a creare un sistema clientelare e relazioni sociali.  Per parte del Settecento la fornace di mattoni in Concorezzo appartiene ai de Capitani. Ad essi la Comunità di Concorezzo sarà debitrice, dal 1690 fin oltre il 1770, di lire imperiali  7.000.
Cfr. inoltre, ASMi, Fondo Catasto,  c. 2997,  registro anni successivi.
 40 Così iniziava: J. Questor Pirro de Capitani  - Illustrissimo Signore, Pirro de Capitani dice che S. Maestà, Deo gratias, usando della sua reale misericordia, dopo di averlo gratiato di suo moto proprio d’una piazza di Questore nel Magistrato Ordinario, ha voluto di più gratiarlo d’un titolo di Conte et dovendo per compimento della mercede appoggiarlo; supplica V.E., che per esecutore di R. Ordini presentati et evacuati, voglia servirsi d’ordinare…” (senza data).
Nel foglio in data 20.10.1696, unito all’istromento di possesso del 23.9.1696, si legge fra l’altro: ”Dal Magistrato nostro, in esecuzione delli ordini di Sua Maestà e di Sua Ecc. è stata fatta vendita al fu conte  Questore Pirro de Capitani del feudo della terra di Concorezzo e sua giurisdizione che l’acquistò unitamente con il conte G. B., suo fratello per il prezzo di lire 72 imperiali per ciascun fuoco, da compensarsegli sopra il credito che tengono detti fratelli verso la Regia Camera per le sovvenzioni fatte dal fu Daniele loro padre al tempo che occupò il posto di Corriere Maggiore di questa Città…”, ASMi, Atti di Governo, Feudi camerali, p. m., Comuni.
41 9.11.1689: “lettera reale diretta a S.E. don Antonio Lopez, Governatore e Capitano Generale dello Stato di Milano con la quale proroga a S.E. la facoltà, per altri due anni, d’impegnare e vendere effetti camerali”: ASMi,  Fondo  s. cit.
 42 Il borgo di Concorezzo, nel 1696,  contava  77 case di abitazione, di cui un terzo apparteneva ai de Capitani; ed una popolazione di 732 persone, comprese quelle residenti nelle 10 cascine, delle quali tre erano proprietà dei Capitani. Cfr. f. pirola, op. cit.,  pp. 226,  460-466.  
Il 20  settembre prestarono giuramento per l’infeudamento di Concorezzo  220 uomini, da altra fonte 211, sopra i 14 anni.
 43 Da  albero genealogico della  Famiglia de’ Capitanei da Sondrio, tavola II.
 “…Sappiamo per certo che attorno al Broletto c’era, già alla fine del Duecento, la residenza di judices seu jurisperiti qui continuo audiunt causas.  Nel consiglio che gestiva gli affari della città sedevano jurisperiti collegii judicum Mediolani…il Collegio dei Giuriconsulti si perpetua per cooptazione; richiede completa formazione giuridica; esige antica cittadinanza milanese che solo nell’età patrizia diventa formale requisito nobiliare… Il Vicario di Provvisione (equivalente al nostro sindaco) ed il luogotenente del Re erano comunque tratti dai Giuriconsulti”:  g. rumi,  I Giuriconsulti, una classe dirigente per Milano, in  Ca’ de Sass, 1995, pp. 19-20.
44 Pirro , inoltre, nel 1658 era stato R.L. Tenente della Provvisione. E …”per gli anni 1660-1661 il Senato lo elesse Vicario del Podestà di Milano”.
 45 Cfr. pure  f. arese, Elenco dei Magistrati patrizi di Milano –dal 1535 al 1796, Vicari di Provvisione,  in  ASL 1964-65, pp. 5-27: p.17.
 46 e. casanova,  Dizionario feudale, p. 38:  l’istromento di investitura venne rogato da Giuseppe Benaglio, notaio camerale; il diploma di Carlo II, interinato il 29 agosto 1691 e il 23 settembre 1696 l’istromento, rogato da Francesco Vallotta, notaio camerale, per il possesso al conte Gianbattista, essendo morto nel frattempo il  di lui fratello Pirro.  Lo stesso Francesco Vallotta che, presidente delle R. Ducali Entrate e Beni patrimoniali dello Stato di Milano, il 15 marzo 1687 aveva informato il governatore di Milano  di come si erano svolti i vari passaggi, dal  2 novembre 1682,  per deliberare al Questore Pirro de Capitani  il feudo di Concorezzo. 
 47 “ La famiglia patrizia poggiava su di un rigoroso ordinamento patriarcale che il Rinascimento, modellando a propria misura tutti i valori della cultura classica, aveva riportato in auge, e che il  Seicento  aveva reso ancor più solenne con lo sfarzo nobiliare e l’austerità controriformista.
Il pater familias  ripeteva nell’ambito familiare, l’autorità che il monarca esercitava sullo stato. Egli era per lo più il primogenito della sua generazione, o comunque il più anziano dei  fratelli viventi, spesso l’unico maschio che era riuscito a superare le insidie della mortalità infantile…Le famiglie al completo non si rivelavano, alla fine, così numerose come potrebbe apparire da un esame superficiale del numero dei nati: la mortalità infantile e giovanile creavano molti vuoti…
(Il primogenito) raggiunta la maturità, accolto sulle sue spalle un buon numero di titoli d’onore e di pubblici uffici, poteva guardare con fiducia al lontano traguardo di una veneranda età circondata dal generale rispetto. Comandava incontrastato sulla moglie, sui figli, su tutta una corte di dipendenti e servitori che gravitavano intorno al palazzo cittadino o alla tenuta di campagna…La moglie gli era stata scelta, a suo tempo, tra le fanciulle della migliore nobiltà, con la preminente preoccupazione di mantenere integro, ed eventualmente di accrescere, il patrimonio familiare destinato a perpetuarsi nelle future generazioni insieme al decoro sociale ed al prestigio politico. Per questa stessa ragione non era un caso eccezionale che la sposa venisse scelta dalla più stretta cerchia di parenti dello sposo: cugina o anche nipote….” dante e. zanetti,  op. cit. , pp. 49-50.
 48 Dell’ 1.9.1690 è l’atto di vendita, 6 fogli in latino, del feudo di Concorezzo a Pirro e al nome di suo fratello Giovanni Battista ed ai suoi discendenti.  In questo atto ci si diffonde sui precedenti   di  tale vendita.
 49 Otto nella Genealogia ufficiale di casa de Capitani (di cui due: Cavalieri “ricevuti” nell’Ordine di Malta); nove per l’Arese che accanto a Pirro, Cesare (che aveva uno schiavo, poi  battezzato col nome di Giuseppe), Lorenzo, Marianna, Carlo, Giovanni Agostino (morto in Meda), Anna Teresa e Giovanni-Maria,  registra un Giuseppe n.1670- m. 1692.
Carlo-Agostino-Melchiorre, nato a Milano il 26 agosto 1688,  conseguì la laurea dottorale nell’Università di Pavia e fu capitano del parco della città di Pavia.
Nel 1726-27 e 1735-36 fu Vicario di Provvisione di Milano. Godette, “don Carlo” accanto al fratello Pirro, di un discreto numero di proprietà immobiliari ed entrate varie. Morì a Milano l’1 marzo 1761.
50 Se la data di nascita è corretta,  a Cesare- Giovanni-Battista spettava la primogenitura.
51 Il 26.10.1751  viene emanata una grida dal presidente e questori del Magistrato camerale per precisare che il conte Pirro e il dottore collegiato don Carlo, suo fratello, sono i “padroni tanto dei dazi vecchi di pane, vino, carne nel borgo di Concorezzo e suo territorio, feudo loro, e dazio del fieno dell’osteria di detto borgo, acquistato…  (vedi nota 38), quanto li dazi nuovi del pan venale e vino al minuto in Concorezzo e nel luogo di Carugate e suoi  territori, assieme del Pane venale del Bettolino, detto di S. Albino…”  Seguono i divieti, le proibizioni per le “persone di qualsivoglia stato, grado e condizione…”  e ”…non si possa proibire né impedire agli Agenti de’ suddetti Padroni, loro Conduttori l’entrare a loro piacere nelle case, prestini, osterie e cantine
52 Allora si diceva simile ad una villa di delizia.   Cfr.“Ville di delizia, o siano palagi camparecci nello Stato di Milano, divise in sei tomi…incise e stampate da marc’antonio dal re, Bolognese, Tomo primo, dedicato all’Altezza Serenissima del Sig. Principe Eugenio di Savoia e di Piemonte,  Milano, MDCCXXVI. Di codesta edizione –incompiuta- il Dal Re fu l’incisore, mentre i disegni vennero eseguiti da G. B. Ricaldi, altro artista bolognese; ogni stampa reca i due nomi.
L’insieme delle tavole ha un grande valore documentario, sia per le architetture, sia soprattutto per i giardini oggi scomparsi o assai trasformati. (II^ edizione 1743, della quale uscirono, però, solo due volumi;  nuova edizione a cura di P. F. Bagatti Valsecchi, Milano 1963).
Questa villa, già nella mente di Pirro e Giovanni Battista ma realizzata dal terzo conte di Concorezzo, aveva un ampio cortile sulla fronte ed un grande giardino (di circa 17 pertiche milanesi  corrispondenti a circa 11mila metri quadri)  con tracciato all’italiana, in un ordinato e simmetrico sistema di viali e di aiuole, sulla fronte interna; ed era composta da una trentina di locali; cfr.  f. pirola, Il borgo di Concorezzo nei documenti del catasto settecentesco e Il territorio di Concorezzo dal censimento di Carlo VI e di Maria Teresa d’Austria, rispettivamente in  i Quaderni della Brianza, nn.149/150 a. 2003 e n. 155  a. 2004.
Presso la Sovrintendenza ai Monumenti per la Lombardia un cenno al palazzo, vincolato secondo la legge 1.6.1939 n. 1089: …”pregevole edificio con architetture della fine del Settecento nella parte posteriore e validi inserimenti ottocenteschi (1831-1841 e 1846; e 2 portici in 8 campi )– restaurate 7 stanze a piano terreno e 5 superiori, comprese 3 dette alla capuccina, secondo denuncia di Francesca D’Adda de Capitani del 3.6.1854 -  ASMi, Fondo Censo, c. 2509- nella fronte e nell’organizzazione del piano terreno che presenta vasti saloni e imponente atrio con arcata a pieno centro e colonne di ordine dorico. I solai si presentano solidi ed in buone condizioni. Non è stato possibile eseguire assaggi per stabilire le caratteristiche costruttive della struttura, che data l’età dell’edificio, si presume costruita in travi ed impalcato di legno. Tuttavia a giudicare dalla rigidezza e dalla mancanza di frecce sensibili sui pavimenti è lecito ritenere che i solai siano stati costruiti a perfetta regola d’arte e che offrano tuttora buone garanzie di  solidità…”  E una relazione tecnica del 1966: “ …le murature portanti sia perimetrali che interne sono costituite da corsi anulari continui in mattoni pieni intercalati a fasce di ciottoloni di fiume impastati con malta piuttosto magra. Lo spessore è proporzionato alla situazione statica in atto. In generale le murature si presentano in buone condizioni statiche…”.
Dinanzi all’ingresso principale di questa villa o palazzo, nel Settecento, erano collocate delle catene, che si reggevano su colonnine, per indicare un privilegio del feudatario. Esse  vennero tolte e spezzate dopo che i D’Adda, eredi dei de Capitani,  la  cedettero al Comune che vi pose la sua sede e nel 1880 anche le Scuole elementari. Nel  frattempo essa  era stata  spogliata insieme al giardino dagli ultimi de Capitani. 
Nel secolo successivo crollò un’ala del palazzo. Il suo recupero non so se sia stato attuato sulla base dei “tipi” ai quali si accenna  nel Catasto di Maria Teresa o di quei disegni che  da quella famiglia passarono di mano in mano (ma che il 9.3.1849 erano segnalati   ancora in  Concorezzo).
53 Sappiamo che i de Capitani vantavano, dal 1691-1692, quattro censi sul Comune di Concorezzo: sopra il sale; sopra l’aumento del sale imposto e venduto dalla città di Milano e due altri acquistati da Giovanni Ceruti “sottomessa persona del conte questore Pirro de Capitani” (ASMi, Fondo Censo , c. 1000).
Ho accennato altresì  come  alcuni de Capitani  lasciavano nei loro testamenti legati per la chiesa e lasciti per fanciulle nubende povere. Ma questo  lo avevano fatto e lo facevano anche gli altri grandi proprietari terrieri, stando forse più vicini al clero locale ed  agli abitanti del borgo.
E per quanto riguarda la memoria di un centro demico, libero da padroni  nei tempi lontani, le opinioni sono diverse.  Per citarne una:  “I soli tiranni reali dell’umanità furono sempre le ombre dei morti o le illusioni che essa si creò”, g. le bon, in Psicologia delle folle, Milano 1946, p.185.
 54 “Quando si dovevano imporre carichi straordinari determinati dal Consiglio generale, con l’approvazione del governo, l’esecuzione veniva affidata alla Congregazione del Patrimonio, che si costituì nel 1599, vista la difficoltà da parte del Vicario di sbrigare tali affari. Questa commissione era composta di otto soggetti o membri, due erano dottori, sei patrizi, il Vicario di provvisione e il Luogotenente come rappresentante del governo…..Spettava a detta congregazione l’invigilare al buono regolamento delle Arti, decidere le cause degli estimi  che nascono fra le Università (corporazioni) accordare ribasso dell’estimo alle Università che decadevano (questo specialmente nella seconda metà del sec. XVIII)…” a. visconti, La pubblica amministrazione nello Stato milanese durante il predominio straniero (1541-1796), Roma MCMXIII, pp. 417-418.
55 Costanza Fornara nacque in Milano il 14 agosto 1747 ed ivi morì il 2 maggio 1800. “Il di lei cadavere fu portato incognitamente nel sepolcro dell’eccellentissima casa de’ Capitanei  in Concorezzo”.
 56 ARMA  gentilizia del conte Pirro de Capitanei per decreto del R. I. Consiglio di Governo 22 aprile 1789 (Codice araldico di Lombardia, pag. 205),  - in una Tavola della Genealogia dei de Capitanei da Sondrio  la data del decreto è 22 aprile 1785 e compariva nell’ASMi.
Il 3 aprile 1789 il pittore Francesco Antonio Sarroni, abitante in Porta Nuova, parr. S. Francesco di Paola al n. 1477, certifica di avere “ricavata e fedelmente ricopiata  l’Arma gentilizia della Casa de Capitani e particolarmente dall’anticho Baldachino che or esiste nell’anticamera della medesima…con mio speciale giuramento…” alla presenza di Vincenzo del Maino, notaio milanese:ASMi, Fondo Araldica, p. a., De Capitani,  c. 62.
Dalla descrizione, riportata qui  di seguito, manca, però, “elmo ornato di piume di rosso” e  sono variate altre parti, come “e col cimiero di una donna al naturale, nascente, vestita di rosso, colla veste ornata d’oro intorno al collo e sul seno…”. 
Inquartato (è lo scudo diviso in quattro parti uguali da due linee, una verticale e l’altra orizzontale che passano ambedue per il centro, p. guelfi camaiani, Dizionario araldico, Milano 1940, alle voci): al primo; d’azzurro a sette corone d’oro, gemmate, sostenenti tre fioroni visibili, e due perle, pure visibili, poste 1, 2, 1, 2, 1: al secondo; fasciato, tre pezzi d’argento e tre pezzi scaccati di nero e d’argento, le fascie d’argento cariche di sei busti d’uomini, i quali busti d’uomini potrebbero forse essere rocchi di scacchiere, raffigurati come teste e busti d’uomini al naturale, coperti  il capo di un cappello accuminato ed a larghe tese pure di rosso, in maestà nascenti dallo scaccato, posti 3, 2, 1: al terzo; d’argento, a quattro fiordalisi d’oro, per inchiesta, posti 1, 2, 1: al quarto;  d’azzurro al sole orizzontale, destro d’oro, figurato di rosso, accompagnato  da una rupe al naturale movente dal canton  sinistro della punta: sul  tutto; d’oro all’aquila di nero, coronata del campo ( indica che 1 figura ha lo stesso smalto del campo dello scudo); lo scudetto ( piccolo scudo posto nell’arme come qualunque altra figura, spesso sta sull’inquartatura o sulla partizione), cimato da corona comitale: cimiero; una figura umana al naturale, vestita di rosso, colla veste ornata d’oro intorno al collo e sul petto, stretta alla cintura, e coperta di un tòcco pure di rosso, impugnante, colla mano destra, una picca al naturale, frangiata di rosso, in banda.
Corona (indica il grado di nobiltà) e manto di Grande di Spagna; e cioè: corona consistente in un cerchio d’oro, gemmato, sostenente otto fioroni, cinque visibili, pure d’oro, e carichi ciascuno di una perla; e manto di velluto chermisino, guernito di frangia d’oro e foderato d’ermellini, ed annodato in alto con cordoni d’oro terminanti in  fiocchi pure d’oro.
I de Capitanei usavano questo motto: Pulcra facie et pulcrior fide.  Tale motto era scritto sopra un listello tenuto colla mano dalla figura umana del cimiero, e disposto in modo che svolazzava in  fascia sul di lei capo.
Dei punti dello stemma descritto: il 1°, il 2°, il 3° ed il 4°, secondo la tradizione, tutti e quattro, di Roberto di Chiaramonte (vedi Tavola di Prefazione); il 2°, portato solo, era speciale dei Capitanei  di Sondrio; lo scudetto sul tutto, portato solo, è speciale dei Capitanei di Scalve.
Per lo stemma dei Capitani di Scalve, riprodotto in questo numero de i Quaderni della Brianza: ASMi, Fondo e cart. per l’Arma citati.,  (1789).
 57 “Nel  Collegio de’ Scoloppi in Siena”.  Giovanni Battista e Carlo Pietro ereditarono anche dal già nominato zio Giuseppe, regio canonico  della chiesa milanese di S. Maria a la Scala in S. Fedele.
 58 Con il  quinto conte di Concorezzo  si può dire chiuso il feudo camerale che i de Capitani considerarono quasi sempre come una  grossa fonte di  reddito. I coloni da loro dipendenti pagavano, infatti, secondo il costume del paese, costume restaurato dopo il 1815, la metà delle imposte e sovra imposte sul prediale, vale a dire sui  fondi di proprietà del feudatario.
I de Capitani partecipavano all’elezione del Capitano di Giustizia di Monza, specie di presidente di tribunale e ad un tempo di questore che esercitava polizia giudiziaria.
 59 Il fidecommesso “vincolava un patrimonio immobiliare alla più assoluta integrità per tutti i futuri passaggi di generazione, senza che i successivi eredi potessero apportarvi alcuna modificazione”: dante e. zanetti, op. cit. , p. 51.
 60 Cfr. f. pirola, op. cit., pp.265-274. Interessante la corrispondenza intercorsa tra parroco di Concorezzo e Curia arcivescovile. Proseguire nella controversia non giovava, però, né all’una parte né all’altra: bisognava, innanzitutto,  lasciare tranquilla,, la popolazione  per non irritare ulteriormente altri compadroni del borgo. 
 61 La madre di Giovanna Serbelloni, Rosina era figlia di Venceslao conte del (S.R.I.) di Sinzendorf, burgravio a Reinegg, conte e signore di Sinzendorf e Thanhausen, tesoriere ereditario del S.R.I., ciambellano di S.M. Romana Imperiale Reale e della contessa Maria Antonia, nata contessa del S.R.I. di Harrach. Era nata a Vienna nel 1754 e morì a Milano il 19 aprile 1837.
I fidecommessi spettanti al di lei fratello, principe Prospero, ultimo maschio di quella casata, pervennero alla morte della madre di Giovanna Serbelloni a donna Rosina de Capitani di Scalve, “alla quale è succeduto il vivente nobile don Alfredo Carcano” (vedere  anche nota 64).
62 Pirro-Alessandro-Carlo-Paolo-Giovanni Battista nacque a Milano  il 22 marzo 1797; Costanza-Rosina-Beatrice-Maria-Luigia il 6 ottobre 1799; Rosina-Giovanna-Maria-Beatrice-Anna-Giulia il 19 luglio 1801 e sposò nell’oratorio privato di casa de Capitanei in Milano il 16 settembre 1822 il nobile don Luigi Leandro Carcano, patrizio milanese; Francesca-Maria-Beatrice-Rosina-Giovanna-Costanza il 25 ottobre 1802 ; e Laura-Agnese-Elisabetta-Sofia il 6 febbraio 1809:  una rosa di nomi (da quattro a sei  per ogni nato) che doveva soddisfare  un parentado sempre più  numeroso.  Rosina Giovanna, insieme alle sorelle Francesca e Laura, si trova registrata col cognome de Capitani di Scalve  nell’elenco ufficiale dei Nobili Lombardi del 1840.
Questi cinque figli del sesto conte di Concorezzo concludono il ciclo di vita della famiglia de Capitani di Scalve, cittadini milanesi.
63  Nel 1815 il prediale, l’imposta fondiaria, dei  Capitani di Scalve a Concorezzo era di scudi 22.854. Ma, ottenuta la conferma di nobilt,à del marito G. Battista, la contessa  Giovanna Serbelloni domanderà la sospensione del pagamento delle tasse. Nel 1816, difatti la contessa  scrive che: “la tenue sostanza e le vistose passività della Casa de Capitani la inabilitano allo sborso della somma di £ 4.605 a titolo di tassa”. Inoltre si lamenterà che la salute del figlio Pirro, ancora nel 1818, risentiva a causa della caduta,, da cavallo mentre faceva da paggio alla carrozza dell’imperatore d’Austria di passaggio a Milano.
Un rapporto di polizia austriaca del 1819   ci  informa che gli ultimi  de Capitani  si erano  caricati  di  debiti  e le poche case che possedevano in Milano erano di non molto valore. ASMi, Fondo Araldica, p.m., alla voce, c. 97.
 64 “Il 25 novembre 1823 si pubblicò una notificazione sovrana coll’elenco dei fuggitivi politici citati a comparire sotto pena della confisca dei beni sui quali  fu oggi posto il sequestro. I qui notati sono di Milano, altri delle provincie di Lombardia: Bossi marchese Benigno…De Capitani conte Pirro…”, Diario del canonico Mantovani (Diario politico-ecclesiastico di Milano), in Città di Milano, nn.7/8, 1968, p. 144.
In una  “informativa” del 28.6.1823 compaiono i nomi e l’età dei  figli del conte Giovanni Battista de Capitani, a cui ho aggiunto altri dati: Pirro ha 26 anni;  e le sorelle: Costanza  ne ha 23 e  da 3 anni moglie di Francesco Lauzi, di famiglia di origine pavese, ma cittadino milanese, di questo matrimonio fu unica prole un maschio, morto infante; Rosina 22 e moglie di don Lorenzo Carcano da 3 anni (verrà decorata in Vienna dell’Ordine della Croce Stellata, come riferisce la Gazzetta di Milano nel 1838); Francesca 20 (nel 1831 sposerà il marchese, conte e barone Francesco Maria D’Adda Salvaterra e morirà a Concorezzo il 18.8.1860; e Laura 14 anni (nel 1836 sposerà il marchese, conte e barone Giuseppe D’Adda  Salvaterra e morirà ad 80 anni). 
Alla morte di Francesca de Capitani, il 18 agosto 1860, la sua eredità passò a Laura d’Adda maritata Scaccabarozzi (decreto 9.4.1862, n.16211).
 65 Nell’attuale via S. Margherita, vi era stato sino al 1784, anno della sua soppressione,  un monastero di suore Benedettine. E nel secondo periodo austriaco il vasto edificio ospitò la Direzione dell’I. R. Polizia austriaca, con annesse le carceri,  nelle quali era stato inizialmente rinchiuso anche Silvio Pellico. Cfr. a. molinari, Conoscere Milano e le tradizioni  ambrosiane, Milano 1956, p.74.
 66 “Come risulta da lettera in data 4 gennaio 1838 da Vienna, firmata dal conte Maurizio Dietrichstein la contessa Serbelloni de Capitani  ricevette, accompagnata da lettera della cancelleria dell’Ordine della Croce Stellata in data di Vienna 28 luglio 1838 la decorazione di quell’ordine, affinchè potesse portarla nell’occasione dell’incoronazione a Milano di S. M. l’Imperatore e Re…”
 67 Il 12 marzo 1850 con istromento notarile aveva diviso i suoi beni tra le due figlie, Francesca e Laura: ASMi, Fondo Catasto, c. 80.  Alla morte di Francesca nel 1860, come sopra accennato, l’eredità della sua parte livellaria passa il 12.1.1861 all’unica figlia Laura d’Adda maritata Scaccabarozzi. L’1.5.1862 passano a Laura altre 2712 pertiche, eredità della madre. Laura,però, causa dissesto finanziario,  svenderà ciò che ha ereditato  a Lucini Giuseppe fu Francesco: ASMi, Fondo cit., c. 454 (istromento d’acq,uisto del 29.5.1873).
 68 dante. e. zanetti, op. cit., p. 68
 69 Nacque a Milano il 22 ottobre 1823 nella parrocchia dei  Santi  Apostoli e di  S. Nazaro e morì in Cremona il 7 gennaio 1895.  Sposò il nobile Anton Maria Albertoni, “conte di Scalve, e dei conti di Macherio”.  Il loro figlio, Francesco Lorenzo Albertoni  accamperà    diritti sul predicato di Scalve”; … mentre regio feudatario di Macherio fu don  Francesco Maria Albertoni nel 1787.  
Questo Alfredo Giuseppe Carcano annota, in un riquadro  dell’ultima tavola manoscritta (1772-1881) della Genealogia dei Capitani di Scalve da lui curata: “…Avverto infine che il suddetto unico figlio maschio di donna Rosina de’ Capitanei di Scalve, nei Carcano, è pure l’unico maschio vivente che discenda per unico mezzo femminile dal suddetto don Giovanni Battista de’ Capitanei di Scalve, conte di Concorezzo…Gli altri maschi viventi discendenti dal medesimo, ne discendono per duplice mezzo femminile”. 
Vale a dire che i suoi cugini Albertoni aspiravano al “predicato di Scalve”, predicato che,  invece, spettava a lui , come pure il titolo di conte.   A causa di  ciò fra sua zia Laura de Capitani, marchesa D’Adda Salvaterra,  ed il  pronipote, Francesco Lorenzo Albertoni si aprirà una vertenza. Questo Albertoni, infatti, aveva chiesto una dichiarazione a conferma dei diritti che la sua famiglia aveva sul titolo  di conte e sul predicato di Val di Scalve. Alla fine il nobile Alfredo Carcano, patrizio milanese,  dichiarerà  di  avere passato al nipote Francesco Lorenzo Albertoni i titoli suddetti.
E così la facoltà di aggiungere al nome Albertoni  il predicato di Val di Scalve venne concessa al conte Antonio Albertoni, figlio di Francesco Lorenzo, patrizio cremonese,  con decreto  del 21 gennaio 1883 da Umberto I: lettere patenti date in Monza il 15 luglio dello stesso anno.
L’archivio dei Capitani di Scalve, però,  fu forse a Bergamo, a Cremona, forse a villa La Rovella di Agliate, passata agli Albertoni  e poi ad un Ordine religioso.   Certo è che quell’archivio,  come altri archivi del patriziato milanese che della storia di Milano  non ha oltrepassato la porta maggiore (ma, in qualche caso,  l’ha anche oltrepassata ), non si  sa con precisione  come,  né dove, sia  finito. Non è improbabile che la rivalità Carcano - Albertoni per il titolo di conte ed il predicato di Val di Scalve vi abbia giocato la sua parte, almeno nella sua dispersione
Ma…” nella società italiana dell’Ottocento l’aristocrazia perde progressivamente i privilegi ascrittivi, le distinzioni di ceto e il monopolio del potere politico ed economico di antico regime, anche se rappresenta ed impone ancora i tratti peculiari del suo sistema di valori , godendo sempre di prestigio. 
Lo status aristocratico fu un modello di  riferimento soprattutto per  le nascenti  forze borghesi….”: a. dionisio, op. cit., in ASL, 1997, p. 197.


 70 (a) cfr.  bernardinus corius, Hist. Mediolan., p. 10, 11, 15, 17; e Chronicon antiquiss., in Archiviis Nobilium    Locarni.
Nella Storia di Milano, Bernardini Corii Marci F. patricii, qui primus origines et inclyta Mediolanensium gesta monumentiis literarum mandavit, patriae historiae, pars prima,  alle pagine  sopra indicate, si potrà fors’anche rinvenire un’ombra di quanto scritto dal genealogista dei Capitani, ma quale reale rapporto possa avere con tale famiglia… Per accreditarlo forse non sarebbe bastata neppure la  inimitabile virtù  dell’Ariosto.
 71 (b) cfr. emmanuel, Tesaurus de Regno Italiae, p. 191; melmelanchto, Chron. , lib. 3, p. 284; crescentius, Amphit. Rom., p. 200,  201, 311; girard, lib.  5, p. 237;  ballarinus, in Chron. Comensi ; paulus morigius, De nobilitate lacus Verbani sive majoris;  paulus jovius, gulerus, Belloforest, Budei Lexicon, &c. &c.
72 A Raimondo descenderunt comites de Vertua bergomenses sic denominati a feudo Vertue qui condecorati fuerunt ab Imperatore Carolo V, titulo Comitum Palatinorum attenta illustri Origine; et etiamnum anno 1740! Ex iisdem extat Comes Galeatius in civitate bergomensis, admodum illustris et conspicuus possidetque etiam Feuda Bulgari et Albini.
       

       

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